Oscar 2011: chi vincerà?

Domenica sera si conosceranno i vincitori della notte degli Oscar. Scriviamo allora qualche breve commento sui 10 film candidati al premio principale, quello per il miglior film. Una piccola nota a margine sulle scelte dell’Academy che quest’anno, a parte qualche eccezione, sono risultate davvero ben fatte.
 
 
In ordine alfabetico (seguendo la titolazione italiana):

 
 
 
 

127 ore di Danny Boyle
 
Chimy: dopo l’orrida vittoria di The Millionaire, quest’anno non dovremmo correre rischi di vedere premi importanti attribuiti a Danny Boyle. Come il suo precedente, 127 ore è un film retorico, ricattatorio, dove il desiderio del regista di essere il vero protagonista della pellicola è sempre più forte: ralenti inutili, velocizzazioni da videoclip, split screen ridicoli fanno di 127 ore uno dei film peggiori dell’anno e della carriera di Boyle. E questo secondo punto era particolarmente difficile da raggiungere.

 

Voto: 1,5/4

 
 
 

Il cigno nero di Darren Aronofsky
 
Chimy: fra i migliori film dello scorso concorso veneziano. Opera complessa, discussa e (in alcuni punti) forse discutibile. Ma il suo è un fascino unico: quello del cinema puro che mostra come superare la staticità di altre arti. Come aveva fatto Scarpette rosse.
Per chi scrive è il miglior film uscito nelle sale italiane negli ultimi mesi. E Aronofsky è un regista ormai (ma si sapeva già da tempo) straordinario.
 

Voto: 3/4

 

Para: Aronofsky torna a ribadire quanto l’ossessione sia il centro nevralgico del suo cinema. Dopo l’ossessione verso i numeri (Pi greco) e quella verso la droga (Requiem for a Dream), torna all’ossessione verso lo spettacolo di The Wrestler. Speculare al suo precedente film, con personaggi dai problemi familiari, entrambi alla ricerca della perfezione e dell’approvazione da parte del pubblico, e con un finale identico e contrario. Entrambi si gettano nel vuoto, uno in avanti, l’altra alle spalle. Il risultato è identico: la morte a favore della propria ossessione.
Macchina da prese sempre attaccata al personaggio, fotografia sporca, sprazzi di tensione ed allucinazione. Natalie Portman bravissima, almeno quanto chi l’ha diretta.

 

Voto: 3/4

 
 
 
 
 
 
Il discorso del re di Tom Hooper
 
 

Chimy: tutto molto ben fatto: attori in stato di grazia, sceneggiatura solida, regia funzionale e via dicendo. Un buon film al quale manca però qualche “sprazzo di cinema” alla Aronofsky per esempio. Le nomination sono tantissime, ma comunque sia la probabile vittoria non è immeritata.

 

Voto: 3/4

 
 

Para: non sempre attori in stato di grazia, scenografie perfette e regia laccata bastano a fare grande un film. E Il discorso del re infatti non è un grande film, ma un film perfettamente buono. Tutto è come dovrebbe e dove dovrebbe essere, ma la narrazione non prende fino in fondo. Positiva la scelta fotografica di opporre la luminosità e la felicità dello studio del logopedista alla cupezza delle situazioni pubbliche.
Il discorso del reè il classico buon film con tutte le carte in regola per spacciarsi come un capolavoro. Ma non lo è.

 

Voto: 3/4

 

The Fighter di David O’ Russell
 

Para: per motivi oscuri Mark Walhberg è sempre stato trattato come un cattivo attore. Ma non è vero. È bravo, quando vuole, e adesso è pure diventato un grande produttore. Dopo la serie Boardwalk Empire, ha prodotto e voluto fortemente questo The Fighter, un film decisamente sorprendente.
Non è un capolavoro, ma è sporco, ben girato e ben scritto, con una famiglia disfunzionale, un coprotagonista crackomane e un pugile buono dai sani principi. È anche un buon film sulla boxe, ma anche un buon film sul cinema e sulla manipolazione documentaristica.
Ha due finali: un happy end che stona ma rispecchia la storia da cui è tratto, e uno che potrebbe lasciare il giusto amaro in bocca. Perché niente, forse, si sistema davvero.

 

Voto: 3/4

 
 
 
 
Un gelido inverno di Debra Granik

Chimy: la grande sorpresa dello scorso anno. Un gelido inverno è ilritratto spietato e glaciale di un'America marginale e abbandonata a se stessa, dove non sembrano esserci più regole e dove vige unicamente la legge del più forte. Una fotografia fredda e distaccata trasmette ancor di più un senso d'inquietudine e smarrimento, all'interno di uno scenario visivo che ricorda quello di pellicole e romanzi post-apocalittici, come «La strada» di Cormac McCarthy, ma che invece è semplicemente la raffigurazione dell'America di oggi. Notevolissima l'interpretazione della giovane Jennifer Lawrence.
 

Voto: 3/4

Para: probabilmente l’altra grande sorpresa del concorso. Un gelido inverno è un film ambientato in Missouri ma fatto come quelle storie sul sud rurale e cattivo uscite dalla penna di McCarthy.
Il peregrinare di una ragazzina in mezzo a reietti e subumani, alla ricerca del padre, un cook di metanfetamine. Ambienti degradati, personaggi sgradevoli, fotografia documentaristica. Tiene fino all’ultimo istante, perché è scritto bene e girato altrettanto. Quando la protagonista chiede agli abitanti della zona dov’è suo padre, nessuno glielo sa dire ma tutti sembrano saperlo. Basta questo piccolo dettaglio per trascinarti fino al collo dentro il film.

 

Voto: 3/4

 

 
Il Grinta dei fratelli Coen
 

Chimy: ennesima riflessione (importante) sul western e la sua deriva contemporanea. Un remake utile (si passi il termine) che nasconde nel sottotesto molte tracce dell’universo tipico coeniano. Rispetto al suo predecessore con John Wayne, i Coen (che fanno meglio di Hathaway) restituiscono al personaggio un alone di miticità che mancava nella pellicola del 1969. Jeff Bridges da Oscar. Sì, ancora.

 

Voto: 3/4

 
 
 
Inception di Christopher Nolan
 

Chimy: uno dei film dello scorso anno. Opera grandiosa, che ti rimane dentro col passare del tempo. Come un’idea che non esce dalla mente. Da vedere e rivedere.

 

Voto: 3,5/4

 
 

Para: il primo tra i migliori film in lizza per l’Oscar, l’altro è Toy Story 3. Su Inception si è detto tutto, e basta ridire che è un grandissimo film.
Proprio per questo non vincerà la statuetta più ambita.

 

Voto: 3,5/4

 

 
I ragazzi stanno bene di Lisa Cholodenko
 

Para: I ragazzi stanno beneè quel film che ormai deve esserci agli Oscar perché porta il Kodak Theatre al Sundance. Certo, gli attori sono grandi e poco indie, ma lo è per come è scritto e per come è messo in scena.
Un film sentimentale agrodolce, virato sull’omosessualità femminile, e dove il terzo incomodo è il donatore dello sperma di entrambi i figli delle due protagoniste.
Annette Bening è superba, e potrebbe persino rubare la statuetta alla vincitrice annunciata Natalie Portman. Julianne Moore è sempre bravissima ma Mia Wachikowska funzionava meglio come Alice che come normale adolescente.
Dopo la crudezza di Un gelido inverno, I ragazzi stanno bene è l’altro film inconsueto che ravviva la lista dei candidati.
 

Voto: 3/4

 
 
 
The Social Network di David Fincher
 

Chimy: altro grande favorito insieme a Il discorso del re della notte degli Oscar. E anche in questo caso il premio principale non sarebbe demeritato. The Social Network è opera molto ben strutturata, pregna di riflessioni sul mondo di oggi e non solo sull’universo facebookiano che ne è protagonista.

 

Voto: 3/4

 
 

Para: Se i favoriti sono Il discorso del re e The Social Network, e a vincere debba essere per forza uno di questi, allora il film di Fincher meriterebbe il premio a mani basse. Purtroppo è difficile che strappi il premio come miglior film, ma potrebbe tranquillamente e meritatamente aggiudicarsi regia, montaggio e sceneggiatura.
The Social Networkè un film sull’oggi che riflette nella sua essenza tutte le logiche che hanno mosso la storia reale: velocità, competizione e avidità.
The Social Networkè un film contemporaneo ma sembra quasi più avanti. Ha fatto di una storia qualcosa che è ancora in corso, come Facebook, che è già storia.

 

Voto: 3/4

 
 
 
Toy Story 3 di Lee Unkrich
 

Chimy: come Inception uno dei film dello scorso anno. Come Inception non vincerà. Anche se sarebbe meraviglioso. Anche se una piccola speranza di una sorpresa di questo calibro me la tengo ancora nel cuore. Sarebbe un miracolo, proprio come il termine più appropriato per descrivere questa gigantesca opera d’arte.

 

Voto: 3,5/4

 
 

Para: l’altro grandissimo film che non vincerà. Però, forse, potrebbe. Miglior film a Toy Story 3 e miglior film d’animazione a L’illusionista sarebbe meraviglioso, una vera sorpresa. Qualcosa che resterebbe nella storia e ce la ricorderemmo tutta la vita, come il giocattolo preferito di quando eravamo bambini.

 

Voto: 3,5/4

 
 

Toy Story 3: la Pixar e il tempo

Sembrava che la favola della Pixar da quest’anno potesse iniziare leggermente a scricchiolare.
Dopo i meravigliosi Ratatouille, Wall-E e Up giungevano notizie non troppo confortanti dalla casa di John Lasseter. Non più nuove storie e personaggi, ma sequel di film del passato: Toy Story 3 nel 2010 e Cars 2 nel 2011.
In più per la prima volta, negli scorsi mesi, è stato cancellato un progetto sul quale i creatori Pixar avevano iniziato ampiamente a lavorare: Newt, con protagoniste delle salamandre, che sarebbe dovuto uscire il prossimo anno.
Sembrava che si potesse iniziare/tornare a parlare di semplici (?) buoni film, ma non più di opere grandiose come quelle proposte nelle scorse stagioni.
Naturalmente erano solo stupidi pregiudizi, perché la Pixar non ha certamente smesso di stupire facendo uscire il suo ultimo miracolo: Toy Story 3.
Già, un miracolo il film di Lee Unkrich, soprattutto perché risulta straordinario proprio negli elementi che più potevano preoccupare i fan della Pixar: le svolte narrative.
Da sempre gli artisti della casa di Lasseter dichiarano che l’elemento più importante è il soggetto, la storia, ancor prima delle tecniche digitali e (più in generale) formali.
Era difficile però aspettarsi che con il terzo episodio di una “saga” si potesse, narrativamente parlando, realizzare un’opera così importante.
Il film si apre con un bambino che sta giocando con i suoi pupazzi: quest’attività non è però vista dagli occhi dello stesso bambino, ma da quelli dei giocattoli che si trovano a dover interpretare una fantastica avventura creata dalla mente del loro “padrone”.
Un ennesimo ribaltamento narrativo come quello celebre del punto di vista dei mostri spaventatori e non più dei bambini spaventati in Monsters & Co.
Una sequenza spettacolare, l’incipit di Toy Story 3, che si conclude con la notizia (per noi spettatori) che quel bambino è cresciuto e sta per partire per il college. Che fine faranno allora i suoi vecchi giocattoli? Andranno nella pattumiera? In soffitta? O verranno donati all’asilo?
In mezzo a una miriade di citazioni alla storia del cinema Woody, Buzz e gli altri protagonisti riusciranno a emozionarci e a commuoverci, come ormai da tradizione per il marchio Pixar. Ed è sempre più difficile (impossibile ormai?) recensire un loro film, perché si finisce sempre a fare lodi sperticate identiche di anno in anno: forse bisognerebbe iniziare a non scriverne più e dire semplicemente che abbiamo visto un’opera Pixar e tanto basta. Superfluo aggiungere anche che il cortometraggio introduttivo Night and Day è una delle cose più belle viste sul grande schermo negli ultimi anni: geniale come il film che lo segue. Toy Story 3, probabilmente il primo grandissimo film dei secondi anni ’10 della storia del cinema.
Meno “evidente” di Wall-E e Up a livello di qualità formale (anche il 3d è molto semplice e funzionale), Toy Story 3 sviluppa anche profonde riflessioni sul senso del tempo che passa, sulla vita umana e sul ruolo da eterno ritorno nietzscheiano che i giocattoli possono svolgere.
E forse proprio Nietzsche è stato uno dei pensatori di riferimento per i creatori della Pixar per le sue riflessioni sul rapporto fra uomo e bambino e sulla necessità di ritrovare da adulti, nella vita e nel lavoro, la serietà che si metteva da piccoli nel giocare.
Perché per Nietzsche (come scrive E.Fink nel suo libro La filosofia di Nietzsche): «Il Gioco umano, il Gioco del bambino e dell’artista diventa un concetto chiave dell’universo e una metafora cosmica»: i film della Pixar allo stesso modo non sono semplici “giocattoli”, ma Giochi (con la g maiuscola) entrati ormai di diritto nelle vette cosmiche della settima arte.
 
 

Chimy
Voto Chimy: 3,5/4

 
 

 
Per la Pixar è il passare del tempo, in tutte le sue forme e con tutte le sue conseguenze, ad essere il principale fulcro tematico. Era successo in Wall-E, in Up e, nuovamente, in Toy Story 3, un sequel dove il tempo trascorso dal secondo episodio è letteralmente trascorso anche nella diegesi del film, con Andy pronto per il college e i suoi giocattoli pronti per la soffitta, l’asilo o la discarica.
Ma i giocattoli, per la Pixar, devono essere giocati, e per farlo c’è bisogno della fantasia. Ecco che l’incipit, un mescolone di generi e situazioni dettate dalla fantasia del bambino durante il gioco, s’interrompe con una sequenza di finte riprese familiari, che mostrano Andy e i suoi compagni di gioco crescere insieme. Un espediente, quello di realizzare finti filmati amatoriali, che ribadisce, ogni volta di più, come il cinema d’animazione cerchi, purtroppo e per fortuna, una dignità in forme ed espedienti tipici del cinema dal vero.
Ma Toy Story 3 è per la Pixar (e ogni volta è lecito ribadire come regista e sceneggiatore, da film a film, siano quasi ininfluenti, tanto sono coesi i film in termini di narrazione e regia) anche un film su come il tempo significhi abbandono, sofferenza, gioia, scoperta e soprattutto, come ci hanno insegnato Wall-E e Up, la responsabilità di lasciare un testimone alle nuove generazioni, a chi, dopo di noi, affronterà il passare del tempo altrimenti detto vita.
E ritorna, anche in Toy Story 3, quel continuo riferirsi al cinema, dove i giocattoli che custodiscono il tramite tra la fantasia del bimbo e la realtà del mondo sono un po’ come i film, e la Pixar ci dice che il cinema deve essere ricordato, guardato e giocato da ogni nuova generazione.
Era iniziata con il primo Toy Story la metafora tra cinema vecchio (fotografico) vs nuovo (digitale), il primo incarnato da Woody e il secondo da Buzz, continuata nel secondo e ribadita nel terzo, dove però non c’è più scontro ma totale armonia, come a voler dire, e la Pixar lo ha fatto con ogni suo film, che non conta più (o non è mai contato) il mezzo, ma quello che vuoi esprimere, ed esprimersi attraverso un piano sequenza enfatizzato dal 3d stereoscopico, oppure attraverso un semplice omaggio al cinema del passato, ha ugual valore, ciò che importa è mantenere un’onestà intellettuale.
E la Pixar, che ad ogni film spinge spettatori, critici o chiunque abbia del sale in zucca a lodare un così alto livello qualitativo, figlio del sistema cinematografico industriale, ma padre di perle della settima arte, non rinuncia mai ad aprire il cuore e gli occhi del pubblico attraverso il suo cortometraggio iniziale. E con Night & Day la Pixar supera se stessa, dove al tema del tempo, della convivenza e dell’uguaglianza, somma una sperimentazione visiva che va da La linea di Cavandoli alla tessitura audiovisiva, dalla profondità di campo stereoscopica al cinema di silohuettes. Ma al posto di lasciare il nero hanno lasciato, giustamente, la meravigliosa luce del Cinema.
 

Para
Voto Para: 3,5/4