Avatar: penetrare Pandora

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Respiro

 

Sono ormai diversi anni che su libri, siti internet e nell’opinione comune si parla spesso di una morte del cinema. Con questo non s’intende malaugurare, soltanto o soprattutto, l’arrivo prossimo e ineluttabile del decesso della settima arte tutta; ma la fine di quella visione collettiva, in una sala buia illuminata alle spalle degli spettatori dal raggio del proiettore, che ha contraddistinto l’invenzione del cinematografo da qualsiasi precedente prototipo artistico basato su immagini in movimento.

I film si guardano da un tempo che ormai è già considerabile passato in televisione, dal presente dei monitor dei computer, al futuro sempre più prossimo delle visioni sugli schermi dei cellulari.

Nonostante i dati sugli incassi delle sale non siano così preoccupanti, abbiamo paura. La visione collettiva, in quello spazio che negli anni ’10 Vachel Lindsay definiva il tempio della nuova arte, sembra crollare costantemente sotto i colpi letali inferti dalla comodità della visione domestica. Intima e gratuita.

Il cinema non è affatto morto, non sta morendo e non morirà. Ma arranca. Con la preoccupazione che negli anni a venire sempre meno persone decideranno di uscire di casa per entrare nel tempio deputato alla visione pagando un sempre più costoso biglietto.

Il cinema come si adegua a tutto questo? Da decenni cerca strade per far sì che la visione in sala rimanga un’esperienza unica e irripetibile.

Il sonoro, il dolby surround, è stata un’innovazione fondamentale, ma non bastava. Bisognava toccare l’atto stesso del vedere, cercando di sfondare quella quarta parete che tanto ha ossessionato teorici e pensatori del secolo scorso.

Come storicamente spesso accade, per approdare al futuro si ritorna al passato. Migliorandolo.

La visione stereoscopica, dell’ex-tentativo fallito del 3d, è stata ripresa nel 2009 per contribuire a “salvare” il cinema. Idea interessante, certo, ma altrettanto rischiosa.

I primi film visti con questa “nuova” tecnica hanno subito avuto un ottimo successo, ma quanti dubbi ci hanno lasciato. Davvero era qualcosa di artisticamente importante? Un passo avanti per lo spettatore o una trovata unicamente commerciale?

Le tante preoccupazioni si univano a domande e questioni: se e quando faremo quel passo che rinnoverà davvero il cinema, quel momento in cui la sala sarebbe tornata davvero l’unica assoluta protagonista. Eravamo in attesa di una risposta, che finalmente è arrivata.

Un solo film può fare tornare questo ottimismo? Sì, perché è arrivata la dimostrazione che il cinema è ancora l’arte più “importante” del nostro tempo (e nella settimana in cui ci ha lasciato Eric Rohmer che ha scritto saggi su questi concetti, sembra ancor più significativo sottolinearlo). Non soltanto non è arte morta, ma continua ad evolversi facendo passi da gigante; non si ferma e (adesso possiamo dirlo con più convinzione) non si fermerà neanche in futuro. Perché il futuro è ancora suo.

Ottimisticamente non ne parlavamo, negavamo ogni possibile problema, per noi il cinema era sempre lo stesso anche se lo era sempre per meno persone.

In realtà stavamo annaspando, ma ora siamo tornati a respirare. Su Pandora. 

 

 

Sono

 

Il tema dell’identità è uno degli elementi più importanti presenti in Avatar. Noi abbiamo ripreso la nostra condizione di spettatori cinematografici, nel senso più corretto del termine. Ma non è tutto.

Il contenuto del film gioca esplicitamente su basi facilmente riconoscibili e decisamente note.

Il tema ecologico, l’aggressione di chi viene da fuori nei confronti dei nativi del luogo, la necessità di riprendere un rapporto spirituale col mondo che ci circonda, che ci appartiene e al quale noi apparteniamo. Tutto vero e, seppur siano elementi diretti e abbastanza “semplici”, è giusto parlarne.

Ma largomento forse più interessante, oltre la forma, di Avatar è legato al significato del titolo stesso e di come viene trattato all’interno del film.

James Cameron ha messo in scena (con una stratificazione semantica che meriterebbe davvero uno scritto a parte) una delle ossessioni e una delle caratteristiche che più contraddistinguono l’umanità dei giorni nostri: la necessità di avere un alter ego virtuale, un avatar appunto, che sopperisca ai desideri che non possiamo raggiungere.

Se come hanno fatto diversi studi americani recenti, nei social network già si creano costantemente falsi profili di sé stessi in cui ci dipingiamo più belli, più bravi o più abili a fare qualcosa; questo è visibile ancor meglio nell’universo videoludico.

Creiamo qui un nostro personaggio in grado di compiere azioni per noi impossibili: saltare da un dirupo ad un altro in un videogioco d’avventura, sparare con estrema precisione in uno di guerra, schiacciare in un canestro in uno di sport ecc ecc. Ancor più significativi sono però quei mondi virtuali che ricreano direttamente la “socialità”.

Un esempio è “Second Life”, dove semplicemente si “vive” in un mondo virtuale fatto a immagine e somiglianza del nostro: però, anche e soprattutto, in quel mondo gli utenti sono portati a crearsi come vorrebbero essere in realtà; non più timidi o deboli ma forti e coraggiosi, non più costretti dalle convenzioni che tanto li fanno penare nella vita reale ma liberi di scegliere compagnie o attività che più li soddisferebbero (per ogni altro riferimento all’argomento rinvio a Adriano D’Aloia, Eteropologia dell’esperienza filmica “virtuale” in Fata Morgana-Esperienza 4; dove partendo dal pensiero di Foucault si va bene ad analizzare il tema mondo reale-mondo virtuale).

James Cameron mette in scena quest’ossessione esplicitamente con un’importanza e una carica di significazione davvero rara. E forse mai vista prima.

Il protagonista non ha più l’uso delle gambe, il suo alter ego è invece in grado di correre e saltare, è possente e possiede una forza fisica sovrumana.

Come nell’universo videoludico, l’uomo crea una figura a sua immagine e somiglianza ma che riesce a superare i limiti dell’utente stesso. E proprio come in un videogioco di genere, c’è l’addestramento, le prove fino alla scontro col cattivo. E, allo stesso modo, proprio come in un mondo virtuale (o anche onirico in questo caso) il protagonista realizza i sogni più ancestrali dell’uomo: s’innamora, ricambiato, della bella del gruppo, diventa il capo della sua gente, salva la loro (e la sua) casa sconfiggendo i nemici.

Jake Sully, il personaggio di Sam Worthington, è un novello L.B.Jefferies-James Stewart ne La finestra sul cortile, costretto in sedia a rotelle ma voglioso (anche per noia) di essere protagonista di un’avventura.

Ma rispetto al personaggio hitchcockiano non si limita a guardare (con tutti i parallelismi con la visione cinematografica possibili) l’azione e “viverla” tramite altre persone; questa volta lui stesso arriva a penetrare lo schermo, per “viverla”, sì attraverso un corpo altro ma che in realtà è sé stesso.

O meglio, il suo Avatar.

 


Vedo

 

 

Giona A.Nazzaro ha detto che: «James Cameron è il D.W.Griffith del nuovo cinesecolo. E Avatar è il suo (ri)nascita di una nazione».

Certo che forse Nazzaro potrebbe avere un po’ esagerato, ma la sua affermazione oltre a dimostrare il coraggio di un ottimo critico, in grado di prendersi ampie responsabilità e che giustamente viene considerato, soprattutto dai cinefili più giovani, uno dei più bravi nel suo mestiere, è anche particolarmente significativa per il paragone che mette in gioco.

Griffith, prendendo spunto da tecniche messe in atto dal cinema italiano, aveva “istituzionalizzato” il linguaggio cinematografico nel 1915 con Nascita di una nazione; James Cameron con “Avatar” istituzionalizza il 3d e, con esso, un nuovo tipo di visione che prima non avevamo mai potuto ammirare.

Oltre a questo, gli effetti speciali della Weta (che hanno cercato, vanamente, di salvare il brutto ultimo film di Peter Jackson Amabili resti) creano attraverso Pandora una meraviglia visiva e un’esperienza spettatoriale davvero unica nella storia del cinema.

Necessario citare anche le parole di enrico ghezzi in questo senso: «La terza dimensione del film siamo noi spettatori, sollecitati a correre oltre la velocità della luce sulle nostre gambe-occhio intorpidite. Non si finisce mai di cadere, e poi ci si accorge che non è un cadere ma un volare».

L’ossessione del vedere è anche presente all’interno della narrazione stessa: «Io ti vedo» dicono i Na’vi quando incontrano un altro essere vivente. Quel vedere sta per sentire l’altro con tutti i sensi, come parte del proprio essere e del proprio mondo.

Una metafora diretta dell’esperienza di visione per gli spettatori che vedendo questo film, in realtà lo vivono completamente, come fossero anch’essi su Pandora. Il pianeta-vaso che contiene tutte le meraviglie del creato, dove gli uomini (come vuole la mitologia) non possono mettere il naso. E gli occhi.

James Cameron, non più solo re del mondo ma dio dell’universo cinematografico, e i suoi collaboratori hanno creato con Pandora un pianeta virtuale dove non si può che rimanere abbagliati di fronte alle straordinarie montagne sospese o all’albero delle anime.

Non si può storcere il naso di fronte ad un tale senso dello spettacolo, se la storia può essere considerata troppo classica o prevedibile. Avatar è il Guerre stellari del nuovo millennio.

Anche in quel caso la vicenda narrata era tradizionale, ma forse proprio questo può essere un pregio perché con tutte le innovazioni tecnologiche possibili ci si appoggia a basi solide che non precludono affatto il coinvolgimento emotivo (come dimostra la toccante e poetica sequenza dell’abbraccio fra Neytiri e il reale (?) corpo di Jake, del quale prima aveva conosciuto soltanto l’anima racchiusa nel suo avatar).

Laurent Jullier (uno dei più grandi studiosi di postmodernismo cinematografico) faceva coincidere l’avvento di Guerre stellari con la nascita del cinema postmoderno; Avatar vedremo se sarà l’inizio di una nuova possibile evoluzione.

Ma forse la vera natura di Avatar sta semplicemente in quel desiderio, già accennato, che da sempre ha ossessionato la settima arte e che ora possiamo finalmente realizzare: lo sfondamento della quarta parete, l’incursione dello spettatore nello schermo, nell’oggetto del suo stesso sguardo.

Reale nuova (ri)nascita virtuale del cinema che è già Storia.

 

Chimy

Voto Chimy: 4/4

 

 

RECENSIONE DEL PARA:

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Per restare in ambito tecnologico, è bene definire Avatar come un aggiornamento. Un aggiornamento di un programma, non una nuova versione.

Avatar si inserisce perfettamente in quella lista di film che hanno contribuito a modificare l’esigenza spettatoriale, ma non a modificarne definitivamente l’esperienza, o a modificare il mezzo (al massimo una parte della tecnica).

Avatar, con un 3d di qualità ed efficacia altissima, sta facendo (o visti i tempi, ha già fatto) un po’ quello che fece Guerre Stellati con il Dolby Stereo, o Jurassic Park con il DTS, ad esempio.

Questo perché il film, seppur obiettivamente coinvolgente ed avvolgente, non ha nessun tipo di riorganizzazione rivoluzionaria del materiale filmico, se non l’aggiunta, certamente indispensabile per l’arricchimento della visione, della profondità di campo tridimensionale.

Avatar, inoltre, è un altro ottimo (dopo Il signore degli anelli) film d’animazione WETA. Cameron ci avrà messo la regia, ma se le meraviglie di flora e fauna di Pandora ci hanno affascinato e stupito, il merito è loro. Teniamolo tutti bene a mente, vista la forza con cui questo aspetto contribuisce al giudizio sul film.

Ma Avatar, al di là dell’effettivo o meno carattere rivoluzionario, sfrutta il 3d non solo esperienzialmente, ma anche concettualmente. Il 3d, infatti, rappresenta ad oggi l’ultimo approdo tecnologico della produzione e della fruizione cinematografica (anche se è un concept vecchio 50 anni, solo oggi funziona davvero), e serve a completare il quadro di riflessione tematica intrapreso da Cameron.

L’avatar di Jake Sully, un portatore di handicap, è una riproposizione virtuale (nella diegesi reale) di sé, e che oggi contraddistingue alter ego virtuali in ogni esperienza videoludica. Per Jake Sully, essere un Na’vi (per diventarlo si fa un link, e Link e Navi sono due personaggi della saga videoludica Zelda, e i Na’vi sembrano degli zora di terra) è la sua esperienza virtuale/reale, che permette lui di fare cose inimmaginabili, e di avere una vita sociale. In questo caso, il fatto che il protagonista sia un diversamente abile, non è soltanto un parallelo meta cinematografico (è bloccato come uno spettatore), ma anche una sorta di simbolo di deficienza sociale che spinge molte persone a rifugiarsi nel virtuale sotto le spoglie di un avatar. Jake, infatti, attraverso il suo avatar e la sua sempre più duratura presenza tra i Na’vi, comincia a perdere il senso di realtà, considerando reale la vita virtuale, e virtuale quella reale, scandita dai videolog, altra forma di comunicazione virtuale. Pandora, inoltre, è un pianeta di link, in cui tutto e tutti sono collegati, che permette la totale integrazione con gli esseri che lo popolano. Pandora, in pratica, è un mondo che Jake Sully, attraverso il proprio avatar, affronta come se fosse un MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Playing Game).

Giustamente, per inscenare un discorso di riflessione meta mediatica di questo tipo, incentrato sul progressivo aumento delle tecnologie all’interno della realtà (e in Avatar pullula la realtà aumentata), la scelta del 3d è significativa perché è da considerarsi la forma di manifestazione tecnologica al cinema più avanzata, e quella più efficace per garantire una certa esperienza, simile (ma comunque lontana) all’esperienza d’interazione videoludica. Non si arriva a interagire, ma ci si avvicina, in alcune sequenze, all’immersione.

Ma, nonostante questo, se il 3d appare utile ad arricchire la visione del film, non resta che una semplice (seppur avanzatissima) aggiunta di profondità di campo aumentata (il 3d aumenta la realtà del cinema, e si ritorna, quindi, ad un utilizzo concettuale del mezzo, usato sopra ad un mondo pieno di realtà aumentata), in quanto, per il resto, il film è girato nella maniera più canonica possibile, senza nessuna vera sperimentazione linguistica applicata al nuovo mezzo. È più ambizioso ed istituzionalizzante, per il 3d, il piano sequenza del fantasma del Natale passato di A Christmas Carol, che tutto Avatar. Con questo, è bene specificare, non si vuole attaccare Avatar, perché anche qui, come per Coraline e la porta magica o Up, il 3d arricchisce la visione, mettendosi al servizio del Cinema. Ma l’aveva già fatto un anno fa Coraline nella stessa maniera, forse senza suscitare l’empatia (e il delirio di massa) tipica del fotorealismo, della narrazione classica e della pubblicità a tappeto.

E Avatar, inoltre, si affida ad una narrazione classica e stereotipata, con un plot banale ma di sicuro successo, costruendoci però una sceneggiatura solida, che fa chiudere un occhio alle scritture approssimative dei personaggi. Ma, teniamolo presente, non sempre in un’esperienza che ambisce al videogioco e all’immersione ottica è utile una narrazione ambiziosa, se l’obiettivo è l’esperienza, può bastare il minimo sindacale.

Perché, in fondo, Avatar non è un film da guardare in un’ottica di analisi del testo filmico (in questo caso è facile la stroncatura, soprattutto dal punto di vista narrativo), ma in un’ottica, più ampia, di spettatorialità e contesto. Avatar, con il suo richiamare alla sala milioni di spettatori di ogni ceto ed età, detta, per forza di cose, quello che il pubblico, da qui in avanti, esigerà vedere se si recherà in una sala 3d. E Avatar, oltretutto, diventerà, o è già diventato, l’emblema di una sorta di ripetizione storica: come il cinema delle origini faceva parte di una serie culturale, a diretta concorrenza con altre offerte d’intrattenimento, e senza un luogo privilegiato di visione, così oggi il cinema sembra aver perso la sua identità di prodotto artistico da fruire in un luogo specifico, entrando a far parte di una serie culturale, “audiovisione”, di cui fa parte televisione, videogioco, film in dvd, film su pc, ecc. Avatar dimostra che il 3d è una spinta per (ri)decretare la sala cinematografica (senza quindi influire sul mezzo cinema) come l’unico luogo deputato ad una certa visione.

Per tutto questo, e per il fatto che il film affascina, coinvolge e si sviluppa con i giusti tempi di azione e stasi, possiamo affermare che Avatar è sì un grande ed importante film, ma non un capolavoro e nemmeno una rivoluzione. Un aggiornamento, appunto, ma il programma è sempre quello, è sempre il solito Cinema.

 

Para

Voto Para: 3,5/4