Wall-E: what a wonderful world?

La cornice iniziale di Wall-e ci apre direttamente alle due fondamenta che saranno le grandi protagoniste di tutto il film: 1) la terra è morta, devastata e ridotta ad un accumulo di rifiuti, è stata abbandonata secoli prima dagli uomini; 2) un tenero robottino, che gli esseri umani hanno scordato di spegnere, continua costantemente a fare il suo lavoro di smaltimento dei rifiuti.

Nella primissima parte seguiamo la vita del robottino Wall-e, che ha come amico un insetto e come passione una vecchia videocassetta di Hello Dolly! di Gene Kelly.

Ogni sua giornata è uguale a quella prima e a quella successiva, fino all’arrivo di una misteriosa astronava sulla terra.

Già in questa prima parte si può riscontrare un collegamento fra Wall-e e l’umanità-tipo dei giorni nostri: esseri sempre più “robotizzati” che compiono ogni giorno gli stessi percorsi, le stesse azioni, gli stessi lavori senza ormai rendersene più conto.

Non a caso il riferimento principale è, oltre che essere il più grande uomo di cinema della storia, uno dei registi che più hanno sviluppato nel totale della sua opera una fortissima critica alla società (novecentesca, in quel caso): Charlie Chaplin.

Wall-e è un Charlot tecnologicizzato. Non solo (e non in particolare) perchè combina disastri o, banalmente, per l’assenza di parole. Come il vagabondo, il robottino è un personaggio solitario, emarginato dalla società; come dimostrerà nella seconda parte, Wall-e una volta arrivato sull’astronave cercherà in ogni modo di integrarsi con il “nuovo mondo” in cui si trova, riuscendoci però soltanto nella conclusione.

E ancora come in Chaplin, la sua storia d’amore con il robot ultra-avanzato Eve sembra impossibile; se Charlot, povero, non poteva “permettersi” di innamorarsi di donne benestanti o in cerca di fortuna, così l’incontro tra i due robot non sembra poter realizzarsi (seguendo una logica non di visione del film in questione, ma di appartenenza al mondo odierno) poichè sarebbe un’unione fra tecnologie low e hi-tech. Quando i due si stringeranno la mano, si va a simboleggiare un rifiuto di una logica funzionalistica tipica del mondo in cui viviamo: questa la seconda forte critica del film alla società odierna e alla sua assenza di umanità, raccontata da una storia d’amore (una delle più belle degli ultimi decenni viste sullo schermo) da due robot che di umano non dovrebbero avere nulla e invece hanno tutto.

Arrivato poi sull’astronave, Wall-e (con noi) scoprirà la fine fatta dagli umani, ridotti ad esseri obesi che restano costantemente seduti-sdraiati, mangiano tutto il giorno, e non sono nemmeno più capaci di rialzarsi se cadono a terra.

Il riferimento cinematografico maggiore di questa seconda parte è, chiaramente, 2001: Odissea nello spazio.

Andrew Stanton (che già ci aveva regalato un’altra perla come Alla ricerca di Nemo) non si limita a riferirsi a Kubrick per lo scontro uomini-macchine. Wall-e infatti va a scavare nello spirito stesso del più grande film di sempre, con una scena magistrale: sotto le note di Also sprach Zarathustra di Strauss, il capitano cade a terra ma riesce finalmente a rialzarsi e a camminare; 2001 racconta delle evoluzioni a stadi successivi dell’essere, Wall-e in quel momento descrive invece un ritorno dell’essere a quello stadio umano che sembrava aver dimenticato fosse esistito.

Wall-e diventa così il film più impegnato (e uno dei migliori in assoluto) della casa, magica, della Pixar (splendido anche il corto che precede il film); che però, inutile dirlo, non si limita certo con questo film a lanciare messaggi fondamentali (che per l’ennesima volta dimostrano l’attenzione del cinema statunitense alle tematiche dell’oggi, raccontate con forza ineguagliabile) ma riesce ad emozionarci come sempre con un cinema costantemente commovente e toccante: basti citare la splendida sequenza nello spazio in cui Wall-e e Eve danzano fra le stelle, come facevano (a terra) i protagonisti del musical amato dal robottino.

Naturalmente straordinario, e ancora più avanzato rispetto alla meravigliosa ultima opera della casa Ratatouille, è il livello tecnico raggiunto dal film con una regia sempre più da “cinema live-action” con l’aggiunta di complesse messe a fuoco e un uso accuratissimo dello zoom; ma la grandezza della Pixar non sta principalmente in questo, ma nelle storie che si vengono a raccontare, negli intrecci narrativi, che la fanno diventare la vera grande (e di lusso!) erede dell’immensa tradizione della Disney: si era partiti facendo parlare (e facendo tornare alle credenze dell’infanzia) i giocattoli di una cameretta, passando (fra gli altri) al geniale ribaltamento delle prospettive mostri-bambini per poi arrivare ad un topolino che sogna di diventare un grande chef a Parigi, fino a questa straordinaria storia d’amore fra robottini di mondi (apparentemente) diversi.

Mentre la Dreamworks continua a fare aritmetica (pavloviana, si potrebbe dire), la Pixar continua a fare Arte: un cinema, il loro, talmente alto da essere classificabile fra le migliori forme artistiche immaginabili, e possibili, al giorno d’oggi.

 

 

Chimy

Voto Chimy: 3,5/4

 

 

 

           

 

 

Premessa: è difficile aggiungere molto dopo le parole di Chimy che condivido in ogni sillaba. Cercherò di parlare d’altro, senza ripetere quanto già detto, in quanto da me condiviso.  

 

Wall-E inizia come un musical, continua come un muto e finisce come 2001: odissea nello spazio. Wall-E è storia del cinema.

Nella panoramica iniziale, che sovrasta una landa desolata, solcata da uno skyline di rifiuti, la musica di Hello Dolly è significativa: la sotto, nel nulla, c’è ancora qualcosa di buono.

Questo qualcosa è Wall-E: Waste Allocator Load Lifter – Earth class. Wall-E è la vecchia generazione, che vive nei, e con, i ricordi. Wall-E colleziona, cataloga ciò noi chiameremmo cianfrusaglie. Wall-E, infatti, ad un anello con diamante preferisce lo scatolino che lo contiene.

Ma Wall-E è, nel film, l’unico terrestre rimasto in vita. E’ la memoria storica della terra, in quanto gli umani, di terrestre, non hanno più nulla. E’ Charlot, un “eroe” del cinema muto, comico e non umoristico, che porta nell’animazione quella componente slapstick che si fa sempre più rara. Ma Wall-E, come i rifiuti che deve sistemare, è lui stesso un rifiuto. E’ il rifiuto di un cinema, quello muto, di cui non potremmo mai liberarci, perché è l’inizio del cinema. La spazzatura, in fondo, non può scomparire nel nulla. Ma Wall-E, allora, è anche la dimostrazione che non è davvero spazzatura, se può tornare con questa forza.

E il cinema muto ritorna, nella parte di film ambientata sull’astronave, in un piccolo e breve segmento dello schermo quando il comandante chiede informazione al computer relative alla parola “terra”. In quel momento appare il seminatore del cortometraggio di D. W. Griffith A Corner in Wheat. Questo cortometraggio del 1909 è il primo esempio di “film-saggio”, nel quale si vuole dimostrare l’impatto devastante per i poveri e i contadini se fosse attuata una malsana speculazione finanziaria sul mercato del grano. Che Wall-E, in qualche modo, possa essere un “film-saggio”? La risposta, probabilmente, è affermativa. Nel film, infatti, sono contenuti una serie di messaggi stratificati e diversissimi che hanno l’opportunità quasi esclusiva di arrivare ad una platea di spettatori inimmaginabile. Tutti (o quasi) vedranno Wall-E, ma questi tutti, comprenderanno i messaggi? La risposta, purtroppo, è quasi certamente negativa. Il destino della terra, e il destino dell’uomo, saranno migliori di quanto visto in Wall-E? Forse saranno addirittura peggiori. La terra è ormai sfruttata e spremuta senza la sufficiente tutela, e l’uomo è ormai un essere quasi privo di personalità che ha una dipendenza da digitale, visivo e auditivo. Lo schermo, la televisione, sono «l’unico e vero occhio dell’uomo» (Videodrome), mentre la comunicazione non può che avvenire con la mediazione tecnologica (telefono, videotelefono, ecc). L’uomo non si muove, mangia e beve senza dover masticare, non produce e si limita a speculare.

Ma in fondo, la Pixar, ci vuole anche dire, forse, che c’è una speranza. Venire a contatto con qualcosa di vivo, come una pianta, è come scoprire l’esistenza di una razza aliena. Crea  consapevolezza verso sé stessi e la propria natura. Lottare, per la prima volta, per (ri)ottenere un passato che non si conosce, ma che si sente proprio, è la linfa vitale di cui l’uomo (odierno e) futuro avrà bisogno.

Ma, in fondo, un manipolo di uomini obesi e con una struttura ossea debole, potranno mai far rinascere una terra distrutta anche dalle proprie mani? Che Stanton abbia voluto lasciare un leggero velo di pessimismo? Chissà.

Due parole sulla regia. Stanton sceglie due stili piuttosto diversi tra la prima parte sulla terra e quella sull’astronave. Nel primo caso il paesaggio è coperto di nebbia e foschia, Stanton quindi sfrutta la messa a fuoco, lo zoom, la “camera a mano”.  Su questo punto si potrebbe articolare un discorso complesso sul cinema d’animazione, ma non è il caso in questa sede. Comunque Stanton sceglie una regia adatta alla realtà che la circonda, a differenza della parte sull’astronave, più nitida, pulita, con punte d’azione e una gran profondità di campo.

Per concludere, Wall-E è post moderno. Ma perché sfrutta un mezzo (l’animazione digitale), un genere (la commedia romantica), che viene rimodellato, riempito di significato, e dove viene cambiato il punto di vista (non oggettivo, non soggettivo, ma collettivo). Wall-E potrebbe essere avanguardia, se restasse confinato come molti dei lavori d’animazione (e non) in un mondo elitario, ma è invece propaganda. Non politica, ma umana.

 

 

Para

Voto Para: 4/4

"Il divo": il capolavoro che stavamo aspettando!

Paolo Sorrentino ha recentemente dichiarato che per lui il cinema è composto soprattutto da immagini e musica; concetto che lo avvicina moltissimo alle idee di registi, come René Clair e Walter Ruttmann (per non citare Charlie Chaplin), che all’inizio del sonoro rifiutavano interamente l’uso del parlato dando alla musica un ruolo preponderante.
Sorrentino ha poi spiegato che nei suoi film i dialoghi sono inseriti soltanto quando li reputa assolutamente necessari a supportare la narrazione; l’idea magnifica, e perfettamente riuscita nel capolavoro Il divo, è quella di far comunicare il più possibile le sole immagini, che sono da sempre la base più importante del Cinema.
In realtà, però, l’ultimo film del(l’ormai) grande regista italiano è un’opera incentrata sui dialoghi. Ma non nel senso convenzionale del termine…

 

 

Il dialogo audiovisivo

Michel Chion, il cui “L’audiovisione suono e immagine nel cinema” (Lindau, 2001) è un riferimento fondamentale per questo paragrafo, non sarà rimasto contento dalla visione de Il divo perchè sarà probabilmente costretto a scrivere un nuovo libro, includendovi prepotentemente l’opera sorrentiniana.

Ancora al giorno d’oggi, la maggioranza assoluta degli autori europei trascura del tutto le importanti innovazioni fatte nel sonoro negli ultimi decenni.

Bisogna oltrepassare l’oceano per trovare registi di nome che abbiano cercato di incrementare la sensorialità spettatoriale tramite il suono: Coppola, Malick e, più di tutti, David Lynch.

Paolo Sorrentino, con questo film, conferma (migliorandosi) di essere uno dei pochi in Europa a sviluppare il suo cinema dando pari importanza e dignità alla percezione visiva e a quella sonora, che si influenzano reciprocamente mediante il fenomeno del valore aggiunto (cfr. Michel Chion).

Durante la splendida scena in cui viene fotografato il settimo governo Andreotti, c’è una sospensione: la mdp si avvicina al volto del protagonista, mentre i suoni intorno sembrano gradualmente fermarsi e, insieme ad essi, sembra bloccarsi anche l’immagine sul volto immobile di Toni Servillo, come se stessimo vedendo noi stessi una delle fotografie che i giornalisti stanno scattando. Sembra quasi che l’immagine e il suono si fermino contemporaneamente; il mondo audiovisivo così si immobilizza per ascoltare con attenzione la voce interiore del protagonista.

Impossibile non citare poi la scene visive per eccellenza: i piani sequenza che Sorrentino gira maestosamente.

Uno dei più interessanti è quello alla festa di Pomicino. La mdp gira intorno alle stanze, scrutando l’ambiente che si trova dinnanzi, mentre la musica suona a ritmo furioso.

Inizialmente ci ritroviamo nella stanza più caotica: luci che sembrano seguire una velocità più sonora che visiva, ragazze che ballano sul cubo, musica altissima. La mdp cerca di passarci velocemente, non può essere qui il protagonista, deve continuare a cercare.

Lo troviamo in un’altra stanza, uguale alla precedente per musica e architettura, ma opposta per movimento e posizione dei personaggi.

Ad un certo punto la mdp sembra fermarsi per ascoltare qualche parola di Livia Danese al marito e, come per incanto, sembra (o succede davvero?) che anche la musica si abbassi per qualche secondo: una sensazione di pausa, questa volta, del movimento audiovisivo, che si ferma per qualche attimo, per poi proseguire a breve il suo sincrono movimento.

La scena, forse, più significativa di tutta la pellicola, a livello più contenutistico che formale, è però un’altra.

Giulio Andreotti, in preda ad un fortissimo stress che cerca di nascondere durante il giorno, cammina tutta la notte avanti e indietro per il corridoio di casa sua.

La mdp lo segue come può, soprattutto, mentre è al centro (luminoso) della sua “passeggiata”; agli estremi c’è invece il buio che nasconde la sua figura; nemmeno le due statue che sembrano scrutare il suo tragitto, riescono a vedere la fine del corridoio. Sentiamo soltanto i suoi passi, indizi sonori materializzanti della sua presenza, che ci fanno percepire che si trova ancora nel nostro campo visivo, è solo l’oscurità a negarcelo.

Potrebbe essere la scena simbolica di tutto il film: Sorrentino ci porta alla luce dei frammenti di Andreotti (il passaggio centrale), ma il personaggio resta comunque oscuro nel finale. Non si può cogliere definitivamente la soluzione dell’enigma che aleggia attorno al divo Giulio.

Ci fermiamo, ma si potrebbero citare molte altre sequenze, per mostrare come Sorrentino abbia dato grandissima attenzione a suono e ad immagine.

Entrambe le percezioni sono sviluppate perfettamente e il regista (caso raro per l’Europa) riesce a farle dialogare in un maestoso concerto audiovisivo come se ne sono visti davvero pochi nella storia del cinema.

Michel Chion, forse, da una parte non sarà contento dopo aver visto Il divo per i motivi detti; dall’altra però sarà certamente ammirato e soddisfatto da Sorrentino che sembra aver imparato ed applicato alla perfezione uno dei concetti cardine del teorico francese: «Non vedo la stessa cosa quando sento. Non sento la stessa cosa quando vedo».

 

 

Il dialogo con lo spettatore

«Tenetevi forte alle sedie!» si sente a circa metà pellicola: un saggio consiglio da dare agli spettatori, che potrebbero rimanere estremamente colpiti e spaesati dalla visione del film.

Il divo dialoga con il pubblico per tutta la sua durata.

Con la prima immagine vanno a sfaldarsi i dubbi che Sorrentino abbia girato un film poco personale o legato unicamente a basi contenutistiche, storiche e sociali.

Il regista ci comunica fin da subito che il film è interamente suo, e lo sarà fino alla fine.

Vediamo infatti un incipit con Andreotti che tenta un particolarissimo (e grottesco) rimedio contro l’emicrania; la stessa identica procedura, solo con un metodo diverso seppur altrettanto bizzarro, che faceva Geremia De Geremei all’inizio de L’amico di famiglia.

La voce interiore soggettiva del protagonista, che riprenderebbe la sua scrittura sul diario, sembra parlare direttamente con noi spettatori; come se il personaggio Andreotti si fidi di noi e voglia rivelarci i suoi segreti nascosti.

Ma forse è solo una nostra illusione, il vero mistero della sua vita è svelato in campo a Francesco Cossiga: l’amore per Mary Gassman, sorella del ben più celebre Vittorio.

Fondamentale sarà anche il momento del monologo di Andreotti, che si sfoga rivolgendosi alla moglie, ma parlando in realtà con noi spettatori.

Sorrentino gli costruisce intorno una scenografia di natura esplicitamente teatrale, con sipario e riflettori che puntano su di lui. Una volta che ha finito di parlare, questi si spengono: lo spettacolo del potere rivelato, per il momento, è terminato.

Altrettanto imporante è il meraviglioso piano sequenza finale, in cui prima la mdp segue Andreotti di spalle, poi ci regala un’emozionante falsa soggettiva, e infine termina sul suo primo piano: sul suo volto nel quale scorgiamo una lacrima formarsi nella pupilla destra.

Il divo Giulio aveva detto che aveva pianto solo due volte nella sua vita: quando morì De Gasperi e quando venne nominato per la prima volta sottosegretario.

La terza volta è per noi spettatori: si commuove guardandoci negli occhi. Quegli occhi che hanno appena visto, seguito e giudicato la sua storia e che ora riflettono la sua sagoma… proprio come le pupille di un gatto bianco che si trovava casualmente (?) nei corridoi del potere.

 

 

Il dialogo con la storia del cinema

Il divo è un’opera che mostra la straordinaria conoscenza di Sorrentino del mezzo cinematografico.

Il regista riesce a realizzare un’opera coraggiosissima per i contenuti e monumentale per la forma, arrivando a far dialogare (con grande stile ed equilibrio) omaggi e riferimenti alla storia del cinema con idee originali e personali.

Una delle scene di maggior impatto di tutto il film è quella dell’arrivo della “corrente andreottiana”. Una meravigliosa danza western a Montecitorio, dove Sorrentino riesce a far dialogare due dei più grandi registi del genere della storia: i suoni e il senso di attesa di Sergio Leone si vanno ad unire alla dilatazione temporale di Sam Peckinpah.

Una scena-capolavoro per la quale è necessario andare a circa 40 anni fa per trovarne di pari livello nel cinema italiano.

Omaggio o meno, Sorrentino realizza poi un magnifico montaggio della attrazioni, tecnica tipicamente Ejzensteiniana, che nell’ “autoriale” e “colto” cinema odierno non viene praticamente più usata.

Alla corsa di un cavallo al galoppo, si va a sostituire alternativamente quella di un uomo (Salvo Lima) che cerca di sfuggire alla morte.

E’ certo però che i riferimenti maggiori sono quelli al cinema anni ’70: dal forte impegno sociale che parte spesso dal grottesco di Petri, al bicchiere effervescente Scorsesiano (che a sua volta omaggiava Godard), al massacro iniziale Coppoliano, con il quale si vanno ad eliminare uno ad uno tutti i “nemici” del “boss”.

Forse però sono proprio le sequenze interamente sorrentiniane quelle più straordinarie: le angolazioni, l’uso degli specchi, la mdp che non stacca praticamente mai; non ci sono tagli (ad es.) dall’immagine riflessa di Moro nello specchio alla sua scomparsa, o dal riflesso di Andreotti in uno specchio del Vaticano all’arrivo (lontanissimo) al suo primo piano.

Impossibile non citare poi la già memorabile sequenza dello skateboard (geniale idea del regista): oggetto che parte dal Palazzo (i mandanti) e giunge al piccolo tunnel (gli esecutori) che porta all’esplosione nella quale muore Giovanni Falcone.

Il divo è un capolavoro perfetto in tutte le sue componenti: sia contenutistiche che formali.

Un magnifico bricolage musicale postmoderno, nel quale svetta la scena con la canzone più popolare e conosciuta in assoluto: il magico momento de I migliori anni della nostra vita (scelta da Sorrentino per il suo testo perfettamente aderente alla situazione mostrata).

Delle interpretazioni straordinarie che sarebbero da citare tutte: Piera degli Esposti, Fanny Ardant, Giulio Bosetti, Franco Bucci, Carlo Buccirosso… e, naturalmente, i due protagonisti.

Anna Bonaiuto, che si conferma la più grande attrice italiana che abbiamo (forse è tempo di capirlo); e, soprattutto, lui: Toni Servillo, uomo ed attore immenso, che ormai non è più semplicemente sulla scia dei Volontè, dei Mastroianni, dei Gassman…e gli altri Nostri massimi attori che raggiunge ufficialmente con questo film, che lo proietta ad essere, non solo il più grande attore italiano vivente (questo lo sapevamo già dal bellissimo Le conseguenze dell’amore), ma uno dei migliori al mondo.

Anche se naturalmente il plauso più grande va a Paolo Sorrentino (anche per una perfetta sceneggiatura, scritta da solo) che entra oggi nel clan dei maggiori registi europei viventi, e se pensiamo che non ha ancora compiuto quaranta anni… ci vengono i brividi (di gioia ed emozione naturalmente) a pensarci.

Grazie soprattutto alla sua regia (come non esaltarsi già nei primi minuti con quei movimenti di macchina tesi a “raddrizzare” le didascalie/presentazioni in rosso) perfettamente conscia delle basi linguistiche del cinema e perfettamente equilibrata nel rapporto forma-contenuto, Il divo è un capolavoro vero e proprio, fra i massimi film visti nel nuovo millennio.

Un’opera d’arte di cinema assoluto, che ci fa gridare rimanendo in silenzio.

Forse è proprio lo stesso tipo di silenzio che colpiva le persone che entravano nell’archivio andreottiano.

Una sensazione che porta Il divo ad entrare a far parte di un altro tipo di archivio: quello dei capolavori che la storia del cinema ci ha regalato.


Chimy

Voto Chimy: 4/4

PREMESSA: dato che sarebbe inutile farlo, non ripeterò una parola di quanto detto da Chimy, in quanto sottoscrivo e approvo ogni sua singola sillaba. Cercherò dunque di scrivere il poco che credo sia ancora necessario dire. In realtà non è poi così tanto poco, ma è meno di quello che ha scritto Chimy. Quindi rallegratevi, se siete arrivati fino a qui manca poco a finire. Però, se siete stanchi, fate una pausa.

 

Introduzione

Popolarità e potere, immagini e musica, Servillo e Sorrentino: i primi proiettati (sullo schermo), i secondi proiettori (di senso e valore).

Sul piano simbolico contenutistico, sul piano linguistico e sul piano diegetico “Il divo” è la perfetta comunicazione continua di due mondi indissolubili.

 

Punto di vista, punto d’ascolto

Pensare che “Il divo” sia un film in cui venga privilegiato il punto di vista di Andreotti, appare riduttivo. La realtà, infatti, è che il film alterna, in continuazione, punti di vista differenti. Questo non accade con un ordine preciso, ma si passa da sequenze con punto di vista di Andreotti, ad altre con altri punti di vista soggettivi ed altre ancora con punti di vista oggettivi. Fin qui, a ben vedere, nulla di strano. Il problema è la percezione da parte dello spettatore. Perché spesso il punto di vista rimane incerto, non facilmente identificabile.

Ad esempio, prima seduta di Andreotti di fronte alla Commissione d’inchiesta parlamentare: il punto di vista è di Andreotti, e lo si evince facilmente dalla soggettiva piena che apre la sequenza. La macchina da presa resterà sempre al servizio della soggettività di Andreotti. La seconda seduta, invece, si apre dalla parte del presidente della commissione, e di compone di una serie di zoom incrociati sulle varie risposte di Andreotti. Il flusso è spezzato, varia di angolazione, il punto di vista è, in senso figurato, quello dell’intera commissione. Andreotti, comunque, rimane al centro, anche scenografico, della sequenza.

Ne “Il divo” al centro dell’attenzione c’è sempre Andreotti, anche quando non è direttamente  il soggetto, perché, in tutti gli altri casi, lui resta comunque l’oggetto. A caricarsi di questo nella diegesi c’è Toni Servillo, a caricare di questo fuori dalla diegesi c’è Sorrentino.

Il piano sequenza finale è emblematico: si passa da una soggettiva, che scopriremo essere una semi soggettiva (una perfetta falsa soggettiva felliniana), ad un dolly che fa un punto di vista oggettivo della corte dei giudici, ad un primo piano con punto di vista soggettivo di Andreotti. Su quest’ultimo primo piano è importante ciò che udiamo: è una voce registrata (di Aldo Moro) che parla del divo Giulio.

Per quanto riguarda la parte uditiva è però necessario parlare di punto d’ascolto.

Il punto d’ascolto (una trasposizione sul piano uditivo del punto di vista), è invece sempre oggettivo. Perché il punto d’ascolto è sempre e solo quello dello stesso spettatore. Il dialogo con lo spettatore (vedi analisi Chimy) non è soltanto quello di Andreotti, ma anche quello di Sorrentino, e non solo in senso di firma autoriale, ma per il modo con cui musiche, suoni e silenzi sottolineino il dialogo visivo. Quando la carcassa dell’auto di Falcone cade in ralenti, il silenzio (che non è mai neutro) è dato dal rumore, lievissimo, delle parte meccaniche e della carrozzeria distrutta. L’esplosione è l’assordante prezzo da pagare per aver assistito al silenzio della strage.

Il punto di vista e d’ascolto, infine, impone un oggetto dello sguardo più ampio, che non interessa la diegesi ma di cui la diegesi è un simbolismo.

 

Oggetto dello sguardo

“Il divo” non è un film su Andreotti, ma IL film sull’Italia.

Seguendo un sillogismo aristotelico allora verrebbe da dire che Andreotti è l’Italia. Non in senso assoluto, ma sicuramente in senso relativo. Prendendo in esame “Il divo”, Andreotti simboleggia l’Italia nella sua complessità. E come scrisse (e disse, nel film) Scalfari, è la complessità a fare la grandezza. La grandezza dell’enigma.

L’Italia, politica, è enigmatica: macchinazioni, corruzioni, omicidi. L’Italia è, per semplificare, machiavellica.

L’Italia, umana, è enigmatica: le reazioni sono incontrollate, selvagge, impulsive, ingenue. L’Italia, rifacendoci alle parole di Andreotti, è, per questi motivi, viva.

Andreotti è machiavellico, senza ombra di dubbio, ma è vivo. Nel suo machiavellismo freddo e calcolato ha avuto reazioni e passioni incontrollate.

Andreotti è l’Italia.

L’Italia è Andreotti.

Perché l’Italia è nata democristiana e morirà democristiana.

 

L’informazione silenziosa (perché zittita)

Una piccola parentesi riguardante l’allegoria Italia tramite il divo Giulio è contenuta nel meraviglioso dialogo tra Eugenio Scalfari e Andreotti.

Scalfari elenca minuziosamente alcune delle accuse dirette ed indirette nei confronti di Andreotti, ipotizzandole, per sottinteso sapiente, delle casualità. Andreotti non risponde, perché è stato lui a salvare “La Repubblica”, nel ’91, dal tentativo di acquisizione di Silvio Berlusconi. Un favore non chiesto da Scalfari, ma che, in quanto ricevuto, dovrebbe comportare un atteggiamento servizievole.

Nel film Scalfari replica invocando la complessità, Andreotti fa altrettanto. Dopodiché la conversazione viene interrotta, Sorrentino non vuole venga aggiunto altro.

In Italia, l’informazione e il mondo politico si parlano come Scalfari e Andreotti. Cioè senza risultati concreti nelle mani del cittadino (e dello spettatore).

 

Caso vs Volontà di Dio

Due termini che designano la stessa cosa.

Due approcci differenti: uno laico, l’altro cristiano.

Scalfari parla di caso, Andreotti di volontà di Dio. Curioso parlare di volontà di Dio quando riguarda la morte di qualcuno. A ben vedere, in questo caso, l’approccio (demo)cristiano di Andreotti non appare così tanto figlio della benevolenza del Signore.

 

Scrittura

Ciò che è scritto, ne “Il divo”, è fondamentale. Sia ciò che è scritto sullo schermo che ciò che è scritto per lo schermo.

Il glossario iniziale scorre sullo schermo in un silenzio imbarazzante. Sorrentino sceglie di accompagnare le didascalie sfruttando il classico silenzio in cui cade la sala ad inizio film. In questo caso, noi spettatori, siamo costretti ad assimilare informazioni (per alcuni già note) in religioso silenzio. L’informazione in questo caso è silenziosa, ma non zittita, anzi, zittisce.

Le scritte rosse, invece, che presentano luoghi e persone e che appaiono durante tutto il film sono spaventosamente perfette. Nella loro obiettivamente frequente ed aggressiva presenza non disturbano mai.

Parlando di sceneggiatura “Il divo” lascia a bocca aperta. La sintesi raggiunta da Sorrentino è sorprendente. Il mosaico di fatti privati e pubblici che Sorrentino sceglie di portare sullo schermo è scritto e intervallato con precisione millimetrica.

Niente è inutile, nient’altro serve.

Tutto ciò che c’è è quello che basta.

Due parole vanno anche dette per Giuseppe D’Avanzo, giornalista da sempre interessato alla vita di Andreotti che ha partecipato alla sceneggiatura in qualità di consulente. C’è già chi, in Italia, critica il film per la sua presenza (considerandolo solo un anti Andreotti senza scrupoli) e per le presunte forti insinuazioni mosse contro Andreotti.

La realtà è che ne “Il divo”, nel momento in cui viene fatta una presa di posizione forte, successivamente questa viene smentita o comunque acquisisce incertezza. Ad esempio: l’incontro con Riina (l’attore è un sosia), non è girato dal punto di vista di Andreotti, ma da quello del’autista del boss, che sta confessando agli inquirenti.

Il risultato è muovere dubbi, e non dare risposte. E’ prima mostrare, poi dimostrare, poi mostrare che la dimostrazione non era sicuramente certa.

 

Paul Thomas Sorrentino

“Il divo” è per l’Italia quello che “Il Petroliere” è per il capitalismo.

Ma “Il divo” è, paradossalmente, ancor più mascherato, perché il personaggio chiave non è un “anonimo” Plainview, ma il divo Andreotti.

Tra l’altro, curiosamente, Paolo Sorrentino e Paul Thomas Anderson hanno inquietanti punti di contatto: coscritti (1970), omonimi (Paolo), hanno fatto un film sul sottomondo del denaro (“Amico di famiglia”, “Sidney”), uno sul sottomondo dello spettacolo (“L’uomo in più”, “Boogie Nights”), una non convenzionale storia d’amore (“Le conseguenze dell’amore”, “Ubriaco d’amore”), e una forte riflessione critica sul proprio paese (“Il divo”, “Il petroliere”). A Sorrentino manca solo un film corale e poi siamo apposto.

In più entrambi scrivono le proprie sceneggiature, sono attenti alle musiche e sono due registi dalla forte firma autoriale.

Sorrentino è il P.T.A. Italiano.

Per assoluto e dovuto rispetto, P.T.A. è il Sorrentino statunitense.

 

Conclusione

“Il divo” è un capolavoro.

“There will be blood”, scorrerà il sangue, era una profezia.

“Il divo”, invece, è il reiterarsi della stessa certezza: l’Italia avrà sempre un suo divo, vecchio o nuovo, perché il divo, nella sostanza, è sempre uguale, e quindi, anche l’Italia.


Para
Voto Para: 4/4

"I fratelli Skladanowsky": gira, gira la manovella…un capolavoro.

A Berlino, il primo novembre 1895, i fratelli Skaladanowsky effettuano la prima proiezione cinematografica mondiale per un pubblico pagante, quasi due mesi prima dei fratelli Lumiere. Inventarono infatti il Bioskop, un proiettore che sfruttava due nastri di pellicola 53 mm, i fotogrammi dei quali venivano proiettati alternativamente. La complessità tecnica e l’ingombro del Bioskop  vennero surclassati dalla superiorità del cinematografo Lumiere.
I fratelli Skladanowsky” è un film di rara bellezza che si sviluppa in due tempi ed in due modi differenti. Il film alterna infatti momenti di finzione (relativi agli anni di attività dei fratelli), girati con un cinematografo a manovella, e realizzati con minuzia esattamente come se fosse un film delle origini (riprese fisse, recitazione enfatica, gag slapstick, musiche che richiamo quelle produzioni, tra l’altro musiche splendide), ad interviste dell’ultima figlia di Max Skladanowsky, un’allegra novantenne che spiega tutti i numerosi brevetti, mai venduti, di suo padre. Secondo la sua testimonianza suo padre riuscì a precedere molte innovazioni tecniche relative a cinema e fotografia, come se quei mesi di vantaggio sulla ripresa e sulla proiezione avessero accelerato ogni altra sua invenzione. Ad esempio mostra una sorta di antenato fotografico del Technicolor, cioè tre negativi emulsionati in giallo, rosso e blu che sovrapposti mostrano l’immagine a colori.
La storia di Max, Emil e Eugene Skaladanowsky è raccontata dalla voce narrante della prima figlia di Max, che commenta dal suo punto di vista di bambina la difficile ma passionale nascita del primo proiettore cinematografico.

La parte documentaristica è invece il preciso e lucido ricordo di infanzia di una anziana signora che, comunicandolo, lo riporta in vita. E allora Wenders fa “trasmigrare” la piccola protagonista della fiction all’interno del documento, mostrandola come una proiezione inconsistente ed invisibile nella realtà. Sul finire del film esce da una fotografia anche lo zio Eugene e, dopo aver trasformato una Mercedes in una carrozza, osservano i cambiamenti di Berlino dopo un secolo (il film è del 1996). Il loro è l’ingresso nella realtà dalla finzione, ma è anche l’ingresso di un tempo (passato) in un altro tempo (moderno). Parlando di cinema, Wenders inserisce il cinema dentro il cinema, inserisce la finzione dentro la finzione, ma una finzione che racconta una realtà. Il racconto dell’unica testimone vivente di un momento storico è il momentaneo rivivere di una memoria storica quasi dimenticata, ma che lei, e soprattutto Wenders, terranno in vita ancora per molto tempo. Il cinema, che permette, anche tramite la finzione, di riportare in vita o di mantenere in vita un determinato tempo è un propulsore e un “conservante” eccezionale di ricordi, che siano reali, finti o entrambe le cose.
Dieci anni dopo “Tokyo-Ga”, venti anni dopo “Alice nelle città”, il rapporto tra realtà e finzione, passato e presente, è indagato da Wenders non solo tramite il mezzo cinematografico, ma raccontando il mezzo cinematografico. E’ un film che fa la bioscopia (esame medico – legale per accertare un decesso) di un mezzo, degli uomini che hanno dato vita ad un mezzo e degli uomini (tra cui c’è lo stesso Wenders) che vogliono farne rivivere il ricordo.
“I fratelli Skaladanovsky” è realizzato con quella semplicità che nasce dall’amore e dalla passione, ed è intelligente e profondo nelle sue intenzioni come l’amore e la passione. Amore e passione per il cinema e, senz’altro, per la vita.

Para
Voto Para: 4/4

P.S.: dopo i titoli di coda Wenders propone al pubblico circa cinque minuti in cui viene ripetuto lo stesso film (di pochi secondi) realizzato dai fratelli Skladanowsky: un bambino balla in maniera approssimativa, una bambina entra nell’inquadratura, il bambino la spinge via ma lei ritorna nuovamente in scena; e così via. La donna che vuole rubare la scena all’uomo viene scacciata ma continuerà a provarci? Oppure, l’uomo scaccia la donna ma tanto questa ritorna? Messaggio nascosto? Forse, e molto più plausibilmente, Wenders ci dimostra che il fascino e la bellezza del cinema vivono anche in cinque minuti sempre uguali, con una ripresa fissa e con dell’azione infantile. Il cinema delle origini, il cinema delle attrazioni, vive e resiste ancora oggi.

Persona: Liv Ullmann e Bibi Andersson a confronto nel (a nostro parere) più grande film di Bergman

Fate silenzio, inizia il film.

Due luci si accendono, una pellicola scorre in un piccolo proiettore: in rapida successione si sovrappongono un pene (ricordate cosa diceva Tyler Durden?) e disegni animati; un ragno e un agnello sacrificale; immagini slapstick e chiodi che si piantano nelle mani di (?) Cristo.

Forse è la dimostrazione che, a più di 40 anni di distanza, le teorie Ejzensteniane sulla messa in pratica del montaggio delle attrazioni sono ancora valide, o forse Bergman ha voluto mostrare frammenti di contenuto che hanno caratterizzato la sua filmografia precedente: il sesso, la religione, il sacrificio, la passione per gli albori del cinema (come racconta nella sua autobiografia: “La lanterna magica”), il ragno-rappresentazione di Dio in “Come in uno specchio” e, per ultima, la neve che rimanda a “Luci d’inverno” e alla sua Svezia che non ha mai voluto lasciare.

In seguito vediamo in una stanza-limbo alcuni corpi (morti?), un bambino si alza dal letto, accarezza un enorme schermo che riproduce il volto di una donna. Questo volto inizia a sfocarsi, ne compare un altro (di un’altra donna) e lui continua ad accarezzarlo.

Questo straordinario incipit, uno dei migliori di sempre, rimane profondamente enigmatico per il momento. Sicuramente, però, Bergman vuole suggerirci già dalle primissime immagini che stiamo assistendo ad una finzione, un film che avrà probabilmente risvolti metacinematografici e, forse, che quei corpi (compreso il bambino) sono personaggi che non hanno trovato spazio all’interno della storia.

Dopo i titoli di testa inizia la narrazione vera e propria: l’infermiera Alma (Bibi Andersson) riceve l’incarico di accudire l’attrice Elisabeth (Liv Ullmann) che, mentre recitava L’Elettra, smise improvvisamente di parlare. Da quel momento si è chiusa in un mutismo assoluto: Alma cercherà di scoprirne le ragioni e farle tornare la parola.

Inizialmente però, più di Alma, è la dottoressa che sembra comprendere il suo silenzio: capisce che il fine di quell’estremo gesto è la volontà di smettere di sembrare e iniziare ad essere. Senza parlare si evita di mentire, si perdono quelle maschere che hanno accompagnato Elisabeth per tutta la vita.

Come in Beckett le parole sono futili, il silenzio è l’unica verità possibile.

Ma così Bergman sembra aprire ad un paradosso: stare in silenzio non è che un’ulteriore maschera, la vita stessa comporta obbligatoriamente la rappresentazione di un ruolo. Si può essere davvero sè stessi?

Alma e Elisabeth (i volti che quel bambino accarezzava sullo schermo), su consiglio della dottoressa, vanno a passare del tempo su un’isola, nella speranza che questo porti giovamento all’attrice.

E’ curioso che il regista scelga, per la prima volta, di girare sull’isola di Faro, quello stesso luogo dove Bergman ha deciso di passare (quasi isolato) gli ultimi decenni della sua vita.

Alma, una strepitosa Bibi Andersson, e Elisabeth, Liv Ullmann in una delle migliori interpretazioni della storia del cinema, diventano sempre più intime: l’infermiera descrive alla grande attrice tutta la sua vita, le sue ossessioni, il suo amore per Mark.

Arriva persino a raccontarle di essere rimasta incinta, in seguito ad un rapporto con dei ragazzini sconosciuti, e di avere avuto un aborto naturale (?).

La natura metacinematografica del racconto viene comunque sempre sottolineata da Bergman con sguardi in macchina e, in un momento memorabile, Elisabeth che fotografa il pubblico.Questo processo trova il suo culmine a metà del film: la pellicola si brucia, è necessario cambiarla; l’immagine rimane sfocata per alcuni secondi prima di riprendere la sua nitidezza naturale.

Il film riprende, ma ogni cosa sembra essere cambiata.

Il bel rapporto che si era instaurato tra le due donne sembra finire quando l’infermiera apre alcune lettere scritte dall’attrice per la dottoressa: vi trova tutto ciò che aveva raccontato ad Elisabeth in quei giorni, compreso l’episodio dell’aborto.

Le due litigano e, dopo un duro scontro, Elisabeth corre sulla riva del mare con Alma, dietro, che la insegue per chiederle perdono.

La sera Alma entra in camera di Elisabeth e la osserva dormire: questo momento, spiega Bergman, è il punto centrale del film: “Alma ha paura, la guarda timidamente, ed improvvisamente si scambiano le rispettive personalità. (…) Alma prova la condizione dell’anima dell’altra donna, per assurdo. Incontra la signora Vogler, che ora è diventata Alma e parla con la sua voce. E’ una scena-specchio".

Nella sequenza successiva (forse un ricordo dell’attrice) Alma incontra il marito di Elisabeth, che vede in lei sua moglie.

Grazie ad una magnifica costruzione dell’inquadratura Bergman ci mostra il volto di Liv Ullmann in primo piano e, dietro di lei,  Bibi Andersson e Gunnar Bjornstrand che si comportano come una normale coppia sposata.

Questo viaggio all’interno dell’inconscio femminile sembra la base (il confronto è d’obbligo) degli ultimi film di David Lynch. Il rapporto che si instaura tra Alma ed Elisabeth è molto simile a quello tra Diane e Camille in “Mulholland Drive” (paragone di cui ha fatto un ottimo saggio Luigi Porto): la duplicità, le diverse dimensioni, il sogno, un rapporto di strettissima intimità… che sfociano (come anche in “INLAND EMPIRE”) in una profonda riflessione metacinematografica sulla natura della finzione (come quello di Liv Ulmann il personaggio di Naomi Watts, in “Mulholland Drive”, è un’attrice).

Il tema del doppio e dello scambio di personalità trova il suo estremo nella sequenza successiva, in assoluto, a mio parere, una delle più importanti della seconda metà del ‘900 cinematografico.

Bergman ci mostra per due volte lo stesso dialogo tra le due protagoniste: prima mostrandoci il volto di Elisabeth, poi quello di Alma.

L’infermiera ha ormai capito il segreto dell’attrice: ella ha avuto un bambino che non desiderava, che voleva nascesse morto; nonostante il suo disprezzo per lui, questi ama profondamente sua madre e lei non riesce a ricambiare questo suo amore.

In realtà questo non è un dialogo ma un monologo, non è un colloquio ma un soliloquio; è solo Alma a parlare mentre Elisabeth la sta a sentire.

Entrambe hanno rifiutato il proprio figlio: Alma con l’aborto, Elisabeth con il desiderio che suo figlio non fosse mai nato.

Questo parallelismo porta all’unità estrema tra le due, raffigurata dalla (memorabile, geniale, strabiliante) fusione tra i due volti.

Sono molto interessanti le parole di Bergman quando racconta di aver mostrato quest’immagine (doppia) alle due attrici: “Quando ricevetti la copia del filmato dal laboratorio, chiesi a Liv ed a Bibi di venire nella stanza del montaggio. Bibi esclamò, sorpresa: "Ma Liv, sembri così strana!". E Liv disse: "No, se tu, Bibi.. sembri davvero strana!". Spontaneamente negarono la loro metà di quel viso..".

Dopo questa sequenza vediamo Elisabeth che succhia il sangue di Alma, e Alma che prende a schiaffi Elisabeth. Facendosi del male, l’una contro l’altra, è come se facessero del male a sè stesse per le scelte che hanno fatto.

In seguito (in una scena forse onirica) Alma riesce a far dire spontaneamente a Elisabeth una parola: “Nulla”. Una parola che sembra sottolineare, ancora una volta, l’inutilità del parlare.

Dopo che Alma parte dall’isola e Elisabeth (morta?) viene ripresa da una troupe (ancora la finzione filmica), Bergman ci mostra ancora il bambino dell’inizio che accarezza quei due volti sovrapposti sullo schermo.

Ora, però, sappiamo (forse) cosa rappresenta: il figlio (morto, mai nato, rifiutato) che mostra affetto per quelle madri che non l’hanno mai voluto.

La pellicola esce dal proiettore, le luci si spengono…la finzione è finita. “Persona”, uno dei più grandi film della seconda parte del secolo, è finito.

Ora potreste parlare, ma rimanete ancora per qualche momento in silenzio. Riflettete su quello che avete visto.

Senza sussurri.

Senza grida.

Rimanete in silenzio.

 

Chimy

Voto Chimy: 4 / 4

Voto Para: 4 / 4

"Luci d'Inverno": il silenzio di Dio, le parole dell'uomo.

Anime smarrite, avventori distratti e devoti credenti sviluppano nei confronti della casa del Signore un rapporto personale, ma sempre simile. La chiesa (l’edificio) è un pilastro, materiale e/o spirituale, di ogni comunità. Per molti è poi il luogo dove poter trovare il conforto umano di chi ha consacrato la propria vita alla fede, di chi può mostrare come e perché credere in un Dio che è al di fuori di ogni nostra percezione. La ricchezza umana che un sacerdote acquisisce è per molti un punto di riferimento indissolubile, perché è l’unico tramite fisico che l’uomo ha a disposizione per consolidare la propria fede verso l’immateriale.
In “Luci d’Inverno” Tomas è un pastore protestante (a cui è dunque “concesso” avere un rapporto di coppia) che ha perso la fede, ha perso dunque la possibilità di aiutare con sincerità chi crede nella sua figura. Non vuole più ostinarsi a credere nel silenzio, nel silenzio di un Dio che chiede ad ogni anima di credere nella propria intangibilità. L’amore è la prova dell’esistenza di Dio, ma la perdita del suo unico vero amore, sua moglie, è per Tomas la scomparsa di Dio, anzi, la prova della sua inesistenza.
Tomas però deve continuare la sua missione, deve continuare a dare Messa e deve continuare ad ascoltare e consolare i fedeli della sua comunità. Può essere considerato un falso, un bugiardo, ma è semplicemente un uomo.
Nella parte iniziale del film cinque persone, ma che sono sei, dato che una di loro è incinta, si inginocchiano attorno ad un settimo, il sacerdote, per partecipare al rito di comunione. Sono immobili, statuari, in attesa di ricevere il corpo ed il sangue di Cristo. Nella vita cercano Dio in una fisicità che non gli appartiene, apparendo più tristi e rassegnati di quanto fossero le sei figure scure de “Il Settimo Sigillo”, mentre danzano in fila dietro alla morte.
Tra questi sei “comunicandi” (traduzione del titolo originale della pellicola), si trova un padre di famiglia aspirante suicida, sua moglie incinta, un giovane uomo devoto alla ritualità della fede, un’anziana signora che ripone in Dio un’intensa e timorosa fede, e Marta, una donna atea innamorata del pastore. Ognuno di loro ripone in Tomas un’aspettativa altissima, certi che sia l’uomo adatto a rassicurare, se non risolvere, i propri dubbi. Il pastore però si sente definitivamente rassegnato, e non riuscirà ad impedire la morte del suicida, non riuscirà a dare alla moglie il conforto che le spetterebbe, e rifiuta bruscamente l’amore di Marta, anche dopo aver letto una sua lunga lettera di profonda confessione, che Bergman ci propone con un intenso primo piano dell’attrice mentre rivolgendosi agli spettatori recita ciò che il suo personaggio ha scritto.
La pellicola, quindi, si nutre e riversa intensità emotiva e concettuale con una forza rara, che acquista ancor più valore se rapportata al senso di mancanza che il personaggio di Tomas trasferisce. Ogni sua parola è vuota, perché fatta di silenzio, parola che si nutre del silenzio di Dio non per renderlo sostanza, ma per sottolinearne la vuota essenza.
“Luci d’Inverno” è un’opera semplice, imperfetta, ma è anche un capolavoro, perché nella sua imperfetta semplicità nasconde una complessità infinita, come il silenzio.

Para
Voto Para: 4/4

"Il Settimo Sigillo": il bianco e il nero di una scacchiera dicono più di mille parole.

settimo sigilloLa morte è forse l’unica certezza che ci accompagna nel nostro cammino. Si può evitare di pensarci, si può esserne ossessionati, si può rifiutarne la crudeltà, o si può esserne morbosamente attratti. La nostra vita terrena è indissolubilmente legata alla sua stessa fine. Attendiamo, senza volerlo ammettere a noi stessi, che la fine ci mieti con la sua scure, riflettendo su quello che perderemo e su quello che ci attenderà.
<<Nessuno può vivere sapendo di dover morire come cadendo nel nulla senza speranza.>>
Le parole del cavaliere Antonius Block ci parlano con una fermezza assoluta, ma costantemente attanagliate dal dubbio. Tornato dalle crociate con la propria fede cristiana ridotta all’osso, si vede giungere la visita di una figura scura, avvolta in abiti neri, ma con un volto che si mostra in una inquietante luce bianca. Quel volto, bianco di cipria, rappresenta la nitida certezza del messaggio di cui si fa voce: la fine è giunta e non lo si può evitare. Una partita a scacchi tra i due, tra la morte e la sua vittima, diventa l’effimero prolungamento di una vita destinata a finire, in cui la speranza di vittoria, da parte del cavaliere, è consapevolmente nulla, e diventa soltanto l’occasione per avere il tempo di riflettere su Dio, sulla fede e sulla natura umana.
Antonius Block è accompagnato nel suo viaggio verso casa dallo scudiero Jones, una figura che fa della parola e della ragione la sua arma. Nel suo atteggiamento sicuro e lucido vediamo la netta contrapposizione con il suo signore. Uno che ha risposto al terrore della guerra, della pestilenza e della morte con dubbi e timori, l’altro che ha risposto mostrando sicurezza, determinazione e cinico realismo.
I saltimbanchi che incontrano nel loro viaggio rappresentano quella gioia e quella semplicità di vivere che i reduci di guerra hanno quasi cancellato. Josef, Mia, il loro piccolo figlio Mikael e il capocomico Jonal, portano i propri spettacoli per le strade, inscenandoli al fianco di processioni di flagellanti e pentiti, di terrorizzati e deboli uomini che vedono  nella malefica peste il giudizio divino, l’apocalisse per un manipolo di poveracci la cui fede è diventata troppo debole. La paura della morte ricorda all’uomo la piccolezza dinnanzi a Dio e la paura diventa la prima e più importante forma di controllo dell’opinione pubblica e di “arruolamento” di anime desiderose (o costrette dall’autocommiserazione) di donare corpo, anima e denaro alla chiesa.
La semplicità dei saltimbanchi, spensierata ma consapevole, affiancata al viaggio verso la morte del cavaliere, rappresenta la duplicità della natura umana, costantemente accompagnata da gioie e dolori, paura e speranza, tragico e comico. Una natura umana fatta di diversità e opposti, così come l’amore coniugale sereno e fedele di Mia e Josef, si contrappone al geloso ed adulterino rapporto tra il fabbro Plog e la consorte Lisa, che fugge momentaneamente con l’attore Jonal, per poi tornare con la coda tra le gambe piangendo e mentendo.
Il dubbio tra l’esistenza o meno di un Dio che ci parla col silenzio, di un Dio che i nostri sensi non possono percepire, è il dubbio che Block vuole risolvere prima di morire. Lo domanderà anche ad una presunta strega destinata al rogo, con la morte negli occhi, occhi dove lei crede di custodire Dio, perché Dio è nella morte, come Dio è nella vita.
L’epilogo della partita a scacchi è scontato, e pur sapendolo fin dall’inizio è lo stesso Block a porgere la vittoria al suo avversario: i pezzi cadono, urtati dal mantello del cavaliere, e la morte può ridisporli, a proprio piacimento, così come a proprio piacimento viene a farci visita, col suo mantello scuro e il suo volto bianco.
Nel castello di Block, quando sua moglie, rassegnata e consapevole, legge versetti dell’apocalisse, la morte giunge, e con lei la loro fine. Block e la moglie, Jones e la ragazza muta, Plog e Lisa, in fila dietro al cavaliere oscuro, si mostrano come sette figure scure, sulla cima di una collina, che danno spettacolo con una danza macabra, i cui spettatori sono i saltimbanchi che fieri e gioiosi di vivere li guardano ballare verso l’aldilà. Chissà che anche Ingmar Bergman non abbia finalmente trovato il Dio che ha costantemente cercato insieme ai suoi personaggi.
In fondo "Il Settimo Sigillo" è la fiera e magistrale messa in scena dei dubbi di un uomo e dei dubbi dell’uomo.
Dubbi che non avranno mai risposta nel nostro breve ed effimero hic et nunc.

Para
Voto Para: 4/4

"Ritual": Hideaki Anno, Iwai Shunji e la figlia di Steven Seagal

ritualRitual” è un film del 2000 di Hideaki Anno, regista ed ideatore di alcune serie animate giapponesi di altissimo livello, tra cui “Neon Genesis Evangelion” e “Nadia”, da noi conosciuta come il “Mistero Della Pietra Azzurra”. Questo “Ritual” è il suo secondo film dal vero, dopo “Love & Pop” (consigliatissimo) e prima di “Cutie Honey” (consigliatissimo).
A differenza dei suoi altri due film, questo è un puro condensato di tutta la poetica di Anno, metacinema allo stato puro. Un regista trova ispirazione per un suo film da una ragazza che incontra sdraiata su dei binari ferroviari, con cui comincerà a convivere, così da poterla seguire e filmare. Soprattutto cercherà di capirla, visto che la sua mente sembra essere alquanto problematica.
Film pregno di simbolismi e di tutto ciò che è marchio di fabbrica di Anno, i passaggi a livello, i binari, i treni, l’acqua, vasche da bagno, ombrelli, tutti elementi che i più attenti hanno sicuramente notato anche in “Neon Genesis Evangelion”, la sua opera più rappresentativa.
Il film è un’indagine, un’analisi sul concetto di solitudine e sul desiderio di essere protetti, di sentirsi al sicuro. Il regista (quello del film) è anche il regista nel film, indaga sulla sua poetica, spiega allo spettatore la sua poetica, e cerca di sfruttare lo spazio filmico in maniera tanto maniacale quanto istintiva. Qui c’è un bel contrasto. Anno gira con uno stile eccezionale, mentre il regista del film (mi spiace ma non hanno nome i personaggi) gira tutto con riprese a mano. Le uniche riprese a mano libera sono quelle del personaggio e quando vediamo ciò che riprende viene occupato solo un quadrato centrale dello schermo. C’è un netto stacco dalla ripresa, istintiva al “100%” del protagonista, alla regia vera, quella rigorosa, ma che segue con naturalezza i soggetti. E’ come se tutto fosse naturale, riflessivo, pacato, come dovrebbe essere la vita quotidiana di ogni persona, ma allo stesso tempo non ci sono sbavature, c’è un rigore eccezionale, una messa in scena encomiabile. Io dico che tutto è dovuto all’abitudine con cui Anno ha girato i suoi prodotti animati. Sulla carta, tutto è deciso, nulla è lasciato al caso, fotogramma per fotogramma.
A completare questo quadro di assoluto pregio concorrono le interpretazioni di altissimo livello dei due protagonisti. La ragazza è di una bravura eccezionale (curiosità: è Fujitani Ayako, figlia di Steven Seagal e scrittrice del romanzo da cui Anno ha preso ispirazione) e il regista è un regista anche nella vita reale (è Iwai Shunji) e recita con una tranquillità ed una naturalezza eccezionali.
Scenografie e paesaggi suggestivi, simbolismi in dose massiccia (ad Anno queste cose piacciono e piacciono molto anche a me, lo ammetto) rendono “Ritual” una rara perla di cinema con la c maiuscola.
Para
Voto Para: 4/4

"Lady Snowblood": la vendetta lega Amore ed Odio.

lady snowbloodQuesto “Lady Snowblood” è senza dubbio un capolavoro della cinematografia, non solo nipponica. Dietro all’opera di Toshiya Fujita c’è un lavoro di incredibile compostezza stilistica e narrativa. La sceneggiatura è stata scritta da Kazuo Koike, un vero e proprio produttore di capolavori, visto che i più attenti ed esperti possono tranquillamente collegare il suo nome a “Crying Freeman”, uno dei manga più belli ed affascinanti degli anni ’80. Uno dei punti forti del film è dunque la storia e la sua costruzione narrativa. Sayo, chiusa in una prigione, muore nel dare alla luce Yuki (significa neve), durante una tempesta di neve rossa. La bambina avrà il compito di vendicare la morte del padre e l’umiliazione della madre, stuprata dagli assassini del marito, dei truffatori senza scrupoli. Viene per questo addestrata da un vecchio samurai severissimo che la educa ossessionandola all’idea di dover vendicare i propri genitori. Una volta cresciuta vagherà per il Giappone alla ricerca degli assassini, con la sua bella lista di morte. Il film è diviso in capitoli, ognuno riguardante uno dei quattro criminali, e la storia, fatta di flashback e spiegazioni è intrecciata davvero alla perfezione. Alcuni flashback utili a spiegare alcuni avvenimenti appaiono sotto forma di disegni, alcuni più dettagliati ed altri in stile manga. Inoltre, abbiamo anche alcuni bei combattimenti in sfondi innevati e le canzoni portanti del film sono cantate dalla stessa meravigliosa quanto bravissima attrice protagonista, Meiko Kaji.
Ok, se ora qualcuno di voi leggendo quanto detto sopra ha esclamato: <<Kill Bill!>>, c’ha azzeccato, visto che lo stesso buon Tarantino ha affermato senza problemi di aver preso "Lady Snowblood" a modello. E vi dico di più, la canzone di “Kill Bill”, “Flower Of Carnage”, è la stessa del film di Fujita. Capiamoci però, Tarantino è un piccolo genietto e dunque il suo film è costruito in modo che tali “spunti” non risultino un punto a suo sfavore, in quanto sono semplici quanto lodevoli omaggi ad un film che l’ha sicuramente folgorato.
Tornando a "Lady Snowblood" due parole vanno spese sulla grande regia di Fujita: nessun calo di ritmo, inquadrature e movimenti di macchina azzeccati in ogni situazione (alcuni elementi di regia coincidono anche in “Kill Bill”), fanno di questo film un’opera di assoluto valore, consigliata a tutti. Consigliata sia agli amanti del cinema giapponese, sia a chi ha amato “Kill Bill”, o anche a chi l’ha odiato, visto che la visione di questo capolavoro potrebbe essere usata a sostegno di questa tesi.

Para
Voto Para: 4/4

Big Bang Love, Juvenile A. Tutto l'amore di 4.600 milioni di anni.

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Chi conosce Takashi Miike, regista di questo film, sa che per lui ci sono alcuni temi che hanno un’importanza tale da apparire in quasi ogni sua pellicola, e questo è indubbio. Ce ne sono due che in un modo o nell’altro spiccano sempre sopra gli altri: l’emarginazione e l’infanzia.
Bib Bang Love, Juvenile A è una magistrale messa in scena di simbolismi, situazioni, frasi e parole che non vogliono altro che raccontare la vita di emarginati in un luogo emarginato. Inoltre l’infanzia, l’adolescenza e il passato hanno un ruolo preponderante nella vita dei protagonisti, perchè il passaggio dall’infanzia all’età adulta è un momento indubbiamente critico nella formazione di una persona, e a queste cose Miike ci tiene, come ha dimostrato in altri film.
Parlavo di simbolismo, e di simbolismo ce n’è molto. Ma non è quel simbolismo difficile e deciso che appare ad esempio in “Izo” (film di Miike del 2004), è un simbolismo molto più poetico e interpretativo, e questo rende il film sicuramente più affascinante. La bellezza è che questi simboli sono tanti, piccoli o grandi, e che vederli e "capirli" (sarebbe meglio dire interpretarli) è sempre un piacere.
L’ambientazione è qualcosa di tanto vago quanto affascinante. La prigione in cui si svolge il film è buia, l’illuminazione innaturale, i colori saturi, luoghi assurdi, forme e geometrie impalpabili. Una prigione in mezzo a un deserto, posta tra una piramide Maya e una base di lancio di un razzo spaziale (e qua vi ho già dato due bei "simboloni") trasmette proprio quella sensazione di luogo fuori dal mondo, di irreale, di metafisico.
La storia è un mosaico senza una linea temporale. Sostanzialmente è una sorta di investigazione su di un omicidio, ma è sviluppata in maniera molto particolare. Potremmo quasi dire che sia uno strano mix tra "Quarto Potere" di Welles, "Rapina A Mano Armata" di Kubrick e "Rashomon" di Kurosawa: flashback, ripetizioni, interrogatori, punti di vista e via dicendo. Non ci si accorge bene se e quanto tempo passi, perchè se l’ambientazione è palesemente fuori dal mondo, tutto è anche fuori dal tempo.
Richiamando nuovamente all’attenzione chi conosce Miike sa che il suo cinema si può dividere, generalizzando molto, in due filoni: da una parte i film assurdi, violenti, estremi, e dall’altra parte i film pacati, riflessivi. Questo film sembra essere qualcosa di nuovo, un mix tra “Izo” (per il simbolismo) e “Bird People in China” (per la profondità, l’introspezione). I film del secondo filone sono film dove la macchina da presa si muove dolcemente insieme ai personaggi, seguendoli in quello che fanno, mostrandocelo quasi senza mediazione. In “Big Bang Love, Juvenile A” c’è la volontà di sradicare ogni ordine, spaziale e temporale. La storia rimane senz’altro profonda e riflessiva ma chiede allo spettatore di adoperarsi a decifrarla, non la presenta, ma la propone, nel senso che sta allo spettatore vederci chiaro. Però capiamoci, non è che il messaggio, la storia, la vita dei personaggi siano criptici e indecifrabili, anzi, nell’intricato non è difficile capire il tutto, ma è un pelo più difficile capirlo a fondo.
Concludendo dico che è davvero lodevole come Miike riesca ad avere una sua maniera di fare cinema e di come riesca a gettarla in ogni luogo, in ogni genere, in ogni film. Il "tocco di Miike" mi verrebbe da dire, così come un tempo dicevano il "tocco di Lubitsch".

Para
Voto Para: 4/4