The Tree of Life: l'odissea della vita, fra Natura e Grazia

«Ci sono due vie per affrontare la vita: la via della natura e la via della grazia. Tu devi scegliere quale delle due seguire»
 
«Padre… madre… voi due lottate sempre dentro di me»

 

«Dov’eri tu quando gettavo le fondamenta della Terra? Dov'eri quando le stelle del mattino cantavano in coro e le creature celesti gridavano di gioia?». Sembra impossibile parlare di The Tree of Life compiutamente. Per questo, forse, iniziare con la citazione che apre il film può essere d’aiuto.
Giobbe – da sempre, non a caso, figura sineddoche dei dubbi umani –  c’introduce verso un’opera specchio del nostro essere. Un’opera gigantesca, larger (non than, bensì)as life, che non può lasciare impassibili. Un’opera che punta in altissimo e per questo cade in qualche piccola crepa (un messaggio forse ridondante o un finale di dubbia riuscita) che non toglie però respiro a una delle visioni più importanti degli ultimi tempi.
Ne La sottile linea rossa (insieme a quest’ultimo il più grande film di Terrence Malick) era, genialmente nella sua semplicità, la guerra a distruggere/opporsi alla bellezza del creato. In The Tree of Life siamo noi stessi. Quello che siamo diventati col tempo o che siamo sempre stati. Per questo è così difficile parlarne. Perché, come pochissimi altri titoli contemporanei,  riesce davvero a trasporre la nostra esistenza e quella del mondo di cui facciamo parte. A metà tra natura e grazia, ossimoricamente, un grande inno alla vita e un’inesorabile ballata di morte: The Tree of Life.
 
 
Natura
 
«La natura vuole solo compiacere sé stessa e spinge gli altri a compiacerla. Gli piace dominare. Gli piace fare a modo suo. Trova ragioni d’infelicità quando tutto il mondo risplende intorno a lei». La ricognizione della natura diviene, in una sequenza centrale dell’intero film, scoperta del male. Uscire fuori dalle mura domestiche e scoprire che c’è altro oltre al sole che trafigge le foglie, oltre al giradischi che suona mentre mangiamo, oltre la nostra famiglia, oltre la purezza dell’infanzia. Scoprire in un attimo la vecchiaia, le deformazioni fisiche, la violenza. E poi la morte. Scoprirla, senza ancora capirla.
Terrence Malick affida la natura alla figura paterna, un perfetto Brad Pitt, che insegna ai figli la durezza, la severa educazione, l’arte della lotta come arma unica di sopravvivenza nel mondo moderno. Questa da sempre è per lui la natura degli uomini. Come di qualsiasi altro essere che ha calcato il nostro pianeta dal momento della creazione a oggi.
Da un dinosauro che schiaccia un suo simile fino alla concorrenza nella sempre più contaminata contemporaneità lavorativa.
The Tree of Life mette in scena la paura stessa dell’essere al mondo. La paura di non ingraziarci i genitori e quella di non poterci ribellare a loro, la paura di crescere adeguatamente i propri figli e di essere pronti alla vecchiaia e poi alla morte. The Tree of Life mette in scena la paura della vita.
 
 
 
Grazia
 
«La grazia non mira a compiacere sé stessa. Accetta di essere disprezzata, dimenticata, sgradita. Accetta insulti e oltraggi». La ricerca della grazia è ricerca di bellezza. Per Malick. Per il suo protagonista. Per tutti noi.
La ricerca di qualcosa nel mondo che vada oltre la natura, oltre il male, oltre quello che possiamo toccare.
La vita, nell’emotivamente insostenibile grandiosità della sequenza della creazione, “nasce” sulla terra con un raggio di luce.
La grazia è affidata alla figura materna, sorprendente Jessica Chastain, che insegna ai figli ad amare ogni cosa, a guardare il cielo per contemplare la casa di Dio.
Come lei, Malick vuole mostrarci che quell’ancestrale luce di vita può essere ancora tra noi. Dobbiamo solo cercarla, come chiede a Sean Penn il fratello morto tempo prima. Girarci verso di lei come fanno i girasoli. Ritrovarla abbassando lo sguardo verso un fiume o oltrepassando con gli occhi la punta di un grattacielo.
Certo ci vuole un desiderio interiore, un atto di fede forse, per vedere, per ritrovarla, per risentirla. Un gesto quotidiano per risvegliare il nostro sopito senso dell’essere.
Come accarezzare un filo d’erba in un mare di cemento. Come attraversare una porta senza pareti in mezzo a un deserto.
 
 
 
L’odissea della vita
 
 
Parla di una cosa sola The Tree of Life: della vita, con tutto quello che ci gira attorno. Parla di tutto pur avendo un solo argomento protagonista.
Parte dall’azione più tremenda che la natura può compiere, la morte, per giungere alla più grande speranza che la grazia promette di realizzare, l’unione delle anime.
In mezzo, una genesi degna del miglior Kubrick e tutto quello che conosciamo: la vita concreta, dall’infanzia all’età adulta.
L’inizio e la fine, la morte e la fede, ne stanno fuori perché non possiamo capirli e calcolarli.
Eppure è proprio nella parte centrale che Malick riesce a renderci consapevoli di qualcosa, ad arricchirci. Ci mostra quello che eravamo da bambini e quello che saremo da grandi. Con le dovute differenze (è necessario dirlo?) tutti seguiamo un simile percorso.
Attraverso un apparato visivo e sonoro commovente per la sua importanza, Malick ci schiaffa addosso dubbi e certezze, preoccupazioni e sollievo, tristezza e felicità, natura e grazia. Tutte insieme. Paradossalmente. Un ennesimo e definitivo ossimoro. Per il nostro passato e il nostro futuro.
In un eterno ritorno che il silenzio di Dio rende ancor più straziante.

 

Chimy

Voto Chimy: 3,5/4

Toy Story 3: la Pixar e il tempo

Sembrava che la favola della Pixar da quest’anno potesse iniziare leggermente a scricchiolare.
Dopo i meravigliosi Ratatouille, Wall-E e Up giungevano notizie non troppo confortanti dalla casa di John Lasseter. Non più nuove storie e personaggi, ma sequel di film del passato: Toy Story 3 nel 2010 e Cars 2 nel 2011.
In più per la prima volta, negli scorsi mesi, è stato cancellato un progetto sul quale i creatori Pixar avevano iniziato ampiamente a lavorare: Newt, con protagoniste delle salamandre, che sarebbe dovuto uscire il prossimo anno.
Sembrava che si potesse iniziare/tornare a parlare di semplici (?) buoni film, ma non più di opere grandiose come quelle proposte nelle scorse stagioni.
Naturalmente erano solo stupidi pregiudizi, perché la Pixar non ha certamente smesso di stupire facendo uscire il suo ultimo miracolo: Toy Story 3.
Già, un miracolo il film di Lee Unkrich, soprattutto perché risulta straordinario proprio negli elementi che più potevano preoccupare i fan della Pixar: le svolte narrative.
Da sempre gli artisti della casa di Lasseter dichiarano che l’elemento più importante è il soggetto, la storia, ancor prima delle tecniche digitali e (più in generale) formali.
Era difficile però aspettarsi che con il terzo episodio di una “saga” si potesse, narrativamente parlando, realizzare un’opera così importante.
Il film si apre con un bambino che sta giocando con i suoi pupazzi: quest’attività non è però vista dagli occhi dello stesso bambino, ma da quelli dei giocattoli che si trovano a dover interpretare una fantastica avventura creata dalla mente del loro “padrone”.
Un ennesimo ribaltamento narrativo come quello celebre del punto di vista dei mostri spaventatori e non più dei bambini spaventati in Monsters & Co.
Una sequenza spettacolare, l’incipit di Toy Story 3, che si conclude con la notizia (per noi spettatori) che quel bambino è cresciuto e sta per partire per il college. Che fine faranno allora i suoi vecchi giocattoli? Andranno nella pattumiera? In soffitta? O verranno donati all’asilo?
In mezzo a una miriade di citazioni alla storia del cinema Woody, Buzz e gli altri protagonisti riusciranno a emozionarci e a commuoverci, come ormai da tradizione per il marchio Pixar. Ed è sempre più difficile (impossibile ormai?) recensire un loro film, perché si finisce sempre a fare lodi sperticate identiche di anno in anno: forse bisognerebbe iniziare a non scriverne più e dire semplicemente che abbiamo visto un’opera Pixar e tanto basta. Superfluo aggiungere anche che il cortometraggio introduttivo Night and Day è una delle cose più belle viste sul grande schermo negli ultimi anni: geniale come il film che lo segue. Toy Story 3, probabilmente il primo grandissimo film dei secondi anni ’10 della storia del cinema.
Meno “evidente” di Wall-E e Up a livello di qualità formale (anche il 3d è molto semplice e funzionale), Toy Story 3 sviluppa anche profonde riflessioni sul senso del tempo che passa, sulla vita umana e sul ruolo da eterno ritorno nietzscheiano che i giocattoli possono svolgere.
E forse proprio Nietzsche è stato uno dei pensatori di riferimento per i creatori della Pixar per le sue riflessioni sul rapporto fra uomo e bambino e sulla necessità di ritrovare da adulti, nella vita e nel lavoro, la serietà che si metteva da piccoli nel giocare.
Perché per Nietzsche (come scrive E.Fink nel suo libro La filosofia di Nietzsche): «Il Gioco umano, il Gioco del bambino e dell’artista diventa un concetto chiave dell’universo e una metafora cosmica»: i film della Pixar allo stesso modo non sono semplici “giocattoli”, ma Giochi (con la g maiuscola) entrati ormai di diritto nelle vette cosmiche della settima arte.
 
 

Chimy
Voto Chimy: 3,5/4

 
 

 
Per la Pixar è il passare del tempo, in tutte le sue forme e con tutte le sue conseguenze, ad essere il principale fulcro tematico. Era successo in Wall-E, in Up e, nuovamente, in Toy Story 3, un sequel dove il tempo trascorso dal secondo episodio è letteralmente trascorso anche nella diegesi del film, con Andy pronto per il college e i suoi giocattoli pronti per la soffitta, l’asilo o la discarica.
Ma i giocattoli, per la Pixar, devono essere giocati, e per farlo c’è bisogno della fantasia. Ecco che l’incipit, un mescolone di generi e situazioni dettate dalla fantasia del bambino durante il gioco, s’interrompe con una sequenza di finte riprese familiari, che mostrano Andy e i suoi compagni di gioco crescere insieme. Un espediente, quello di realizzare finti filmati amatoriali, che ribadisce, ogni volta di più, come il cinema d’animazione cerchi, purtroppo e per fortuna, una dignità in forme ed espedienti tipici del cinema dal vero.
Ma Toy Story 3 è per la Pixar (e ogni volta è lecito ribadire come regista e sceneggiatore, da film a film, siano quasi ininfluenti, tanto sono coesi i film in termini di narrazione e regia) anche un film su come il tempo significhi abbandono, sofferenza, gioia, scoperta e soprattutto, come ci hanno insegnato Wall-E e Up, la responsabilità di lasciare un testimone alle nuove generazioni, a chi, dopo di noi, affronterà il passare del tempo altrimenti detto vita.
E ritorna, anche in Toy Story 3, quel continuo riferirsi al cinema, dove i giocattoli che custodiscono il tramite tra la fantasia del bimbo e la realtà del mondo sono un po’ come i film, e la Pixar ci dice che il cinema deve essere ricordato, guardato e giocato da ogni nuova generazione.
Era iniziata con il primo Toy Story la metafora tra cinema vecchio (fotografico) vs nuovo (digitale), il primo incarnato da Woody e il secondo da Buzz, continuata nel secondo e ribadita nel terzo, dove però non c’è più scontro ma totale armonia, come a voler dire, e la Pixar lo ha fatto con ogni suo film, che non conta più (o non è mai contato) il mezzo, ma quello che vuoi esprimere, ed esprimersi attraverso un piano sequenza enfatizzato dal 3d stereoscopico, oppure attraverso un semplice omaggio al cinema del passato, ha ugual valore, ciò che importa è mantenere un’onestà intellettuale.
E la Pixar, che ad ogni film spinge spettatori, critici o chiunque abbia del sale in zucca a lodare un così alto livello qualitativo, figlio del sistema cinematografico industriale, ma padre di perle della settima arte, non rinuncia mai ad aprire il cuore e gli occhi del pubblico attraverso il suo cortometraggio iniziale. E con Night & Day la Pixar supera se stessa, dove al tema del tempo, della convivenza e dell’uguaglianza, somma una sperimentazione visiva che va da La linea di Cavandoli alla tessitura audiovisiva, dalla profondità di campo stereoscopica al cinema di silohuettes. Ma al posto di lasciare il nero hanno lasciato, giustamente, la meravigliosa luce del Cinema.
 

Para
Voto Para: 3,5/4

Up: l'arte è… nell'aria


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Up inizia con un cinegiornale, rendendo immediatamente palese quale sia uno dei suoi obiettivi: la rievocazione del passato.

Sia il film che il suo protagonista cercano di rievocare il passato, il secondo attraverso la concretizzazione di un sogno, il primo (il film) attraverso il riutilizzo di elementi (che appaiono cronologicamente) quali il cinegiornale, il cinema muto, il genere dell’avventura, la narrazione Disney.

Così la Pixar dimostra nuovamente come il discorso fondante del suo (ultimo) cinema sia la dialettica tra il cinema come storia (o come fenomeno spettatoriale) e la storia della narrazione. In Ratatouille era l’omonimo piatto a rappresentare il cinema, attraverso il critico-spettatore Anton Ego; in Wall-e era lo stesso robottino a rappresentare un cinema del passato come una tradizione da perseverare e proteggere come si dovrebbe fare con la nostra terra; e ora con Up è il film stesso a divenire un discorso sull’emozione dell’essere spettatori (e uomini).

Up si dipana con un discorso inverso a quello che viene intavolato nei primi 15-20 meravigliosi minuti di puro cinema, non solo muto (perché senza dialoghi), ma audiovisivo (perché fondamentale è la musica). In questa sequenza è efficacemente raccontata, dopo un breve incipit canonico e con dialoghi, la vita di una coppia dall’infanzia fino alla vecchiaia, condita di momenti felici e infelici, della gioia della speranza e del dolore della delusione (di non avere figli, di non poter tramandare e rivivere nella propria casa la gioia dell’infanzia). Questi primi minuti, come la parte fino alla “condanna” della casa di riposo per Carl, sono palesemente indirizzati ad un pubblico adulto, capace di metabolizzare e percepire l’emozione che significa vivere.

Pete Docter accelera la vita, toccando svariati punti, per portare lo spettatore, con il protagonista, a considerare e considerarsi rapidamente attaccati ad una situazione senza via di scampo (ma che verrà ribaltata, essendo cinema). Dalla partenza di Carl con la sua casa volante, invece, si regredisce verso l’infanzia, e da lì il film diventa un’avventura, anche disneyana, per tutti e per i bambini, che si immedesimano nel cinesino (un vecchio e un cinese, in un film anche sulle generazioni, non vi ricorda niente?), che si divertono coi cani parlanti (che parlano attraverso un mezzo, il collare, che è anche un ulteriore sottoriflesso del mezzo cinema, che rendere possibile l’impossibile, e che rievoca i ricordi, i sogni e le speranze, cioè quello che cerca di fare il protagonista) e che godono dell’happy ending, dopo le pregevoli sequenze d’azione e di divertimento. Così se la prima parte del film parla delle radici, che sono rappresentate dalla casa, la seconda parla del germoglio di quelle radici, rappresentate dalla leggera innocenza del palloncino, simbolo infantile, che può sradicare le radici e farle librare nel cielo, fino a render vivo il sogno d’infanzia. E il cielo diventa il tunnel spazio temporale per tornare indietro, attraverso una simbolica macchina del tempo (dei ricordi) volante. E il finale è l’unione materiale dell’anziano che ha potuto render vivo un sogno, e del bambino a cui va consegnato un testimone, una spilletta di latta, che è il passaggio del testimone della capacità di sperare, sognare, e vivere.

Nuovamente, la Pixar (che è diventata una firma, quasi indipendentemente da quale sia il regista di turno), è riuscita a fare propaganda (dopo quella morale di Wall-e) d’emozioni. E se qualcuno potrebbe dire Miyazaki, per il volo, per l’infanzia e per la speranza, forse si potrebbe soltanto dire che l’arte è nell’aria e ogni tanto, a qualcuno, capita di respirane un po’ a pieni polmoni.


Para


Voto Para: 3,5/4


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Up: un titolo che diventa una particolare metafora della Pixar che ogni anno che passa riesce a salire sempre più su. È ormai impossibile riuscire a trovare ogni anno delle parole adatte a descrivere le meraviglie che ci troviamo davanti agli occhi quando bisogna recensire le nuove opere della Casa. Tutto era iniziato (nel campo dei lungometraggi) con Toy Story e le sue innovazioni, e lì si ritornerà l’anno prossimo con il già attesissimo Toy Story 3, per poi passare allo splendido A Bug’s Life e a una serie di altri film indimenticabili per grandi e piccini.

Forse la grande svolta è arrivata due anni fa, quando con il grandioso Ratatouille si iniziava un ragionamento sulla regia (a ricreare movimenti, e bellissimi, di una normale macchina da presa) che proseguì nel 2008 con il potentissimo Wall-E. La Pixar però non sembra fermarsi davvero mai, e il primo decennio del secondo secolo di vita del cinema (che ha visto la Pixar grandissima protagonista) si chiude con un film che forse riesce ad andare ancora più su (e, insieme a questo, una menzione speciale va al corto introduttivo Parzialmente nuvoloso che è un’ennesima meraviglia).

Up, un film con una forza narrativa talmente immensa che ci porta quasi a non accorgerci di una tecnica d’animazione sempre più avanzata, di una perfetta tempistica dei tagli di montaggio e di un uso del 3d mai invasivo ma estremamente efficace e avanzato.

Up è una poesia, le cui rime e i cui versi sono tracciati dal volo leggiadro di un palloncino. Up è un sogno: il sogno di una vita, il raggiungimento delle cascate Paradiso dove Carl ed Ellie avevano sempre voluto andare.

Up è un’avventura: la natura selvaggia, gli animali esotici, il volo verso luoghi sconosciuti, che da piccoli si potevano vedere soltanto al cinegiornale.

Up è una riflessione: sulla vecchiaia, sull’umanità stessa, sull’amore.

Up è il Cinema: in una delle sequenze più straordinarie del decennio, Pete Docter (già regista di Monsters & Co.) ci regala in pochissimi minuti la storia che hanno vissuto per tutta la vita Carl ed Ellie, dall’infanzia alla morte di lei. E qui, guardando il film, anche i più piccoli ci perdoneranno se non saremo in grado di spiegarli subito che quella donna anziana che fa fatica a scalare una collina era la bambina scatenata che c’era qualche secondo prima sullo schermo; ci perdoneranno vedendo che i nostri occhi, già estasiati di fronte alle meraviglia che stiamo ammirando, stanno davvero faticando a cercare di trattenere alcune lacrime.

 


Chimy

 

Voto Chimy: 3,5/4

Coraline e la porta magica: un ponte fra il cinema di ieri e quello di domani


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C’è una curiosità interessantissima alla base del celebre libro di Neil Gaiman da cui è tratto questo magnifico film: il nome della protagonista doveva essere il comune Caroline e non Coraline, nato da un errore di battitura sulla tastiera che Gaiman non ha poi voluto modificare. In questo senso, a causa del cambiamento nel nome, fin dalla sua origine letteraria il personaggio è una figura “altra”, una sorta di doppio, rispetto a quello che doveva essere in origine.

Questa curiosità apre fantasticamente a riflettere sul contenuto stesso dell’opera, la cui narrazione si snocciola attraverso un passaggio fra due mondi paralleli. Henry Selick, già regista dell’immenso Tim Burton’s Nightmare Before Christmas, dall’autore di Burbank non ha attinto unicamente per quanto riguarda l’uso dell’animazione in stop-motion e l’immaginario gotico-favolistico, ma anche per la rappresentazione di mondi diversi/opposti. Come nel capolavoro La sposa cadavere, il “mondo dei vivi” è un universo spento, annoiato, contraddistinto da colori freddi e monocorde, mentre l’altro mondo, quello dei “morti”, è variopinto, allegro, gioioso; opposto alla banalità dell’esistenza umana dell’epoca contemporanea.

Seppure ci siano questi riferimenti al cinema del suo caro amico Tim Burton, la grandezza di Coraline e la porta magica è merito assoluto di Henry Selick che forse proprio grazie a questo film è da iniziare a considerare un grande regista. Selick rende perfettamente il mistero e la fascinazione presenti nell’opera da cui è tratto, trasportando questa a diventare un perfetto esempio di opera cinematografica. La memorabile tecnica d’animazione (di cui si parlerà fra poco), non toglie spazio a una narrazione che funziona perfettamente dall’inizio alla fine, con personaggi splendidamente tratteggiati e con una storia che gioca spesso su un perfetto ribaltamento di prospettive. Basta pensare a quanti film ci hanno mostrato delle “fughe dalla realtà” a lieto fine, l’approdo in mondi diversi ha (quasi) sempre portato a esiti positivi, soprattutto quando a “sognare” di cadere in questi universi erano dei bambini. Ma Coraline segue dei topolini, non un coniglio bianco, e quando attraversa il tunnel oltre la porta magica non si ritrova nel paese delle meraviglie, ma in quello degli orrori. Impossibile e impensabile parlare di questo film senza ragionare anche sulla tecnica d’animazione che unisce la stop motion al 3d stereoscopico.

Nel corso di questa stagione cinematografica (da settembre in poi), le opere migliori uscite sul grande schermo sono tutte d’animazione: Wall-E di Andrew Stanton/Pixar, Ponyo sulla scogliera di Hayao Miyazaki e ora Coraline e la porta magica che, visivamente, è forse ancor più impressionante dei due (grandi) film precedenti. Sette anni di lavorazione, il cui risultato ha pienamente soddisfatto le attese. La stop motion raggiunge livelli straordinari, ma è soprattutto il 3d a colpire gli occhi degli spettatori con risultati che, dopo aver visto Mostri contro alieni (indietro nettamente anche su questo), si pensava si potessero raggiungere fra diverso tempo.

Momenti di cinema straordinario quando Coraline cade nella tela dell’altra madre; quando salendo su una mantide tagliaerba vediamo il giardino dall’alto; o ancora un magnifico movimento di macchina che dalla pioggia esterna ci trasporta al viso di Coraline che guarda fuori dalla finestra di casa mentre le gocce cadono sul vetro. Henry Selick ha realizzato così una meraviglia che unisce la più antica tecnica d’animazione a quella più moderna, facendo diventare Coraline e la porta magica un’opera memorabile, metafora di un ponte che unisce il cinema del passato al cinema del futuro.


Chimy

 

Voto Chimy: 3,5/4

Two Lovers: fra allegorie e lirismo si innalza il cinema di James Gray

Allegorie newyorkesi


In Two Lovers di James Gray vi sono delle interessanti allegorie.
L’allegoria è una figura retorica per la quale si affida a un contesto linguistico (scritto o orale) un senso allusivo diverso da quello che è il contenuto logico delle parole; oppure può essere anche il racconto di un’azione che dev’essere interpretata diversamente dal suo significato apparente.
Ad un livello di definizione successiva l’allegoria può anche essere vista più semplicemente come la figurazione plastica di un concetto astratto.
In Two Lovers le anime dei tre personaggi protagonisti sono riposte in oggetti simbolici: essenze astratte in forme plastiche-concrete.
Michelle (Gwyneth Paltrow) è un anello con un diamante: la bellezza e lo splendore uniti alla fragilità e all’effimero.
Sandra (Vinessa Shaw) è un guanto: sicurezza e protezione di un oggetto poco appariscente ma duraturo.
Leonard non è semplicemente un oggetto: il personaggio di un eccellente Joaquin Phoenix è un ponte dal quale buttarsi, una finestra dalla quale spiare, una pista da ballo dove può scatenarsi e ogni strada che va ad attraversare.
L’anima di Leonard non è statica, si muove costantemente all’interno di una città piena di contraddizioni e “incasinata” (proprio come lui): quella Grande Mela che, ancora oggi, è un luogo in cui si passa in pochi metri dalle luci ricche di Manhattan al buio impoverito del Bronx.
Una città che rimane indecisa, e divisa a metà, fra il bagliore accecante di un anello di diamanti e la ricerca della protezione di un guanto caldo.
Leonard è New York.


Spazi di visione


James Gray nella sua carriera non ha mai sbagliato un film.
Se le sue tre opere precedenti erano esplicitamente tre variazioni di un unico tema, Two Lovers è certamente qualcosa di diverso dove però il tocco di Gray rimane lo stesso.
Cambiano in parte i temi, cambia in parte il genere, ma in ogni sequenza si respira lo stile del regista de I padroni della notte.
Gray muove la sua cinepresa con rigore e costanza, non si prende pause, sembra mantenere un distacco dai personaggi proprio nei momenti in cui ce li fa sentire più vicini. Anche la regia diviene un luogo privilegiato di spazi, mai lasciati al caso, in cui si muovono i corpi attoriali.
Emblematica in questo senso è la scena/e sulla terrazza del palazzo dove si trovano Leonard e Michelle.
Assistiamo ad un’impostazione scenica simil-teatrale con i muri che sembrano sipari che cingono il dialogo dei due; alla staticità del teatro Gray però aggiunge la dinamicità del cinema.La cinepresa si muove, si sposta, cerca i personaggi che si muovono a loro volta. All’orizzontalità del panorama di New York visto dalla terrazza, Gray aggiunge dei bombardamenti verticali che spezzano la più semplice visione per approdare nuovamente ad una ricerca stilistica sull’immagine, sugli spazi statici e sul rapporto fra questi e i personaggi.




Sospensioni (in questo paragrafo ci sono spoiler sul finale)


Two Lovers, seppur convincente fin dall’inizio, sarà con il finale che arriverà ad elevarsi a opera cinematografica pregna di un lirismo stilistico che appartiene, e molto, alle corde del regista.
Dopo che Michelle gli dice che non partirà più con lui, Leonard cammina solitario verso il mare.  Durante questo tragitto Gray attua una sospensione Chioniana che non ci permette più di sentire le grida, le risate e i festeggiamenti (per il nuovo anno) dei luoghi ai quali Leonard passa accanto. Sentiamo unicamente la malinconia della musica che accompagna i suoi passi, le onde del mare e, infine, le lacrime.
Il soggetto di tale sospensione è la vita.
La gioia ritrovata da Leonard sembra svanita per sempre e l’infelicità sembra nuovamente riaffacciarsi all’angolo dell’esistenza.
Ma Leonard decide diversamente: raccoglie l’anello e il guanto e torna a casa dalla sua famiglia. Il diamante lo darà a Sandra, (auto?) convincendosi così che per quella ragazza che gli dava sicurezza potrà provare anche quella passione che aveva per Michelle.
Non tutto però è così semplice.
È giusto lasciare alle interpretazioni più svariate se questo sia un finale lieto o terribile. Sarà lo stesso Joaquin Phoenix, guardando in direzione del pubblico, ad invitarci a riflettere su quella scelta e su quanto abbiamo visto: una felicità (finalmente!) raggiunta o un suicidio (finalmente?) riuscito.

Chimy

Voto Chimy: 3,5/4

Ponyo sulla scogliera: stupore e meraviglia di fronte a Miyazaki

<<Oppresso di stupore, a la mia Guida mi volsi>>

Dante – Paradiso, canto XXII

Secondo la tradizione della critica artistica, fra i poteri dell’opera d’arte vi è una scala di emozioni che possono essere suscitate in chi guarda.
Il grado più alto di effetto sul pubblico era la capacità dell’artista di creare una sorta di particolare sgomento a chi si trovava a contemplare la sua opera.
Questo sgomento si collega a due caratteristiche più facilmente identificabili: la meraviglia e lo stupore.
Giorgio Vasari quando scrisse di quella che per lui era la più grande opera mai realizzata, cioè il Giudizio Universale di Michelangelo, non si concentrò eccessivamente sul cercare di descrivere quello che si trovava davanti, su quei colori, su quelle figure straordinarie; ma aprì il suo discorso dicendo che quando quest’opera venne scoperta (nel senso di mostrata al pubblico), nel Natale del 1541, ci fu "meraviglia in tutto il mondo".
Il concetto di stupore diviene però ancora più efficace in relazione al film e al regista protagonisti di questa recensione. Lo stupore è infatti una sensazione di meraviglia e sorpresa talmente forte da togliere quasi la capacità di parlare e di agire.
Non siamo distanti da questa forma immobilizzante di stupore di fronte alla nuova meraviglia di Hayao Miyazaki intitolata Ponyo sulla scogliera.
Ancora una volta di fronte a un film del più grande regista giapponese vivente diviene (come hanno già ricordato tanti cari amici nelle loro recensioni in giro per la rete) quasi impossibile scrivere, parlarne, poichè la parola non può ricreare il valore e, ancor di più, il potere di quelle immagini che ci sono appena passate davanti agli occhi sullo schermo. E con Ponyo sulla scogliera le cose diventano ancora più complicate che con i film precedenti di Miyazaki: se con la Principessa Mononoke potevamo parlare ampiamente del messaggio ambientalista straordinario, se con La città incantata potevamo descrivere la perfezione stilistica raggiunta dallo studio Ghibli, o ancora se con Il castello errante di Howl potevamo parlare della perfetta struttura narrativa; con Ponyo sulla scogliera diviene impossibile appoggiarsi ad un giudizio così concreto, poichè li contiene tutti.
Ponyo sulla scogliera sembra in apparenza più semplice dei tre film precedenti nelle tre categorie descritte; ma al tempo stesso ne è una summa poichè li contiene tutti.
Il messaggio ambientalista non può che farci nuovamente ragionare su quanto stiamo facendo al mondo, molto più che qualsiasi documentario possa fare; lo stile di Miyazaki tocca forse il suo apice nelle straordinarie immagini sottomarine e nell’arrivo dello "Tsunami"; la struttura narrativa è semplice ed efficacissima, riesce a commuovere proprio per la sua purezza di fondo e per la rappresentazione autentica di valori e sentimenti che sembrano sempre più scomparsi.
Miyazaki risponde alle rivoluzioni 3d (e non solo) in atto e riutilizzando la magia dei pastelli, la freschezza degli acquerelli, donandoci una galleria di disegni che raramente si vanno a trovare nei grandi musei d’arte.
Non si può che rimanere a bocca aperta davanti al castello marino del padre di Ponyo o di fronte all’arrivo della madre; non si può che rimanere immobilizzati davanti alla corsa in automobile per tornare a casa mentre le onde del mare diventano pesci giganteschi o di fronte alla danza delle meduse che apre il film.
Immagini che creano una forma di meraviglia e di stupore nel pubblico che nessuna tecnologia digitale potrà mai ricreare.

Chimy

Voto Chimy: 3,5/4

Voto Para: 3,5/4

Wall-E: what a wonderful world?

La cornice iniziale di Wall-e ci apre direttamente alle due fondamenta che saranno le grandi protagoniste di tutto il film: 1) la terra è morta, devastata e ridotta ad un accumulo di rifiuti, è stata abbandonata secoli prima dagli uomini; 2) un tenero robottino, che gli esseri umani hanno scordato di spegnere, continua costantemente a fare il suo lavoro di smaltimento dei rifiuti.

Nella primissima parte seguiamo la vita del robottino Wall-e, che ha come amico un insetto e come passione una vecchia videocassetta di Hello Dolly! di Gene Kelly.

Ogni sua giornata è uguale a quella prima e a quella successiva, fino all’arrivo di una misteriosa astronava sulla terra.

Già in questa prima parte si può riscontrare un collegamento fra Wall-e e l’umanità-tipo dei giorni nostri: esseri sempre più “robotizzati” che compiono ogni giorno gli stessi percorsi, le stesse azioni, gli stessi lavori senza ormai rendersene più conto.

Non a caso il riferimento principale è, oltre che essere il più grande uomo di cinema della storia, uno dei registi che più hanno sviluppato nel totale della sua opera una fortissima critica alla società (novecentesca, in quel caso): Charlie Chaplin.

Wall-e è un Charlot tecnologicizzato. Non solo (e non in particolare) perchè combina disastri o, banalmente, per l’assenza di parole. Come il vagabondo, il robottino è un personaggio solitario, emarginato dalla società; come dimostrerà nella seconda parte, Wall-e una volta arrivato sull’astronave cercherà in ogni modo di integrarsi con il “nuovo mondo” in cui si trova, riuscendoci però soltanto nella conclusione.

E ancora come in Chaplin, la sua storia d’amore con il robot ultra-avanzato Eve sembra impossibile; se Charlot, povero, non poteva “permettersi” di innamorarsi di donne benestanti o in cerca di fortuna, così l’incontro tra i due robot non sembra poter realizzarsi (seguendo una logica non di visione del film in questione, ma di appartenenza al mondo odierno) poichè sarebbe un’unione fra tecnologie low e hi-tech. Quando i due si stringeranno la mano, si va a simboleggiare un rifiuto di una logica funzionalistica tipica del mondo in cui viviamo: questa la seconda forte critica del film alla società odierna e alla sua assenza di umanità, raccontata da una storia d’amore (una delle più belle degli ultimi decenni viste sullo schermo) da due robot che di umano non dovrebbero avere nulla e invece hanno tutto.

Arrivato poi sull’astronave, Wall-e (con noi) scoprirà la fine fatta dagli umani, ridotti ad esseri obesi che restano costantemente seduti-sdraiati, mangiano tutto il giorno, e non sono nemmeno più capaci di rialzarsi se cadono a terra.

Il riferimento cinematografico maggiore di questa seconda parte è, chiaramente, 2001: Odissea nello spazio.

Andrew Stanton (che già ci aveva regalato un’altra perla come Alla ricerca di Nemo) non si limita a riferirsi a Kubrick per lo scontro uomini-macchine. Wall-e infatti va a scavare nello spirito stesso del più grande film di sempre, con una scena magistrale: sotto le note di Also sprach Zarathustra di Strauss, il capitano cade a terra ma riesce finalmente a rialzarsi e a camminare; 2001 racconta delle evoluzioni a stadi successivi dell’essere, Wall-e in quel momento descrive invece un ritorno dell’essere a quello stadio umano che sembrava aver dimenticato fosse esistito.

Wall-e diventa così il film più impegnato (e uno dei migliori in assoluto) della casa, magica, della Pixar (splendido anche il corto che precede il film); che però, inutile dirlo, non si limita certo con questo film a lanciare messaggi fondamentali (che per l’ennesima volta dimostrano l’attenzione del cinema statunitense alle tematiche dell’oggi, raccontate con forza ineguagliabile) ma riesce ad emozionarci come sempre con un cinema costantemente commovente e toccante: basti citare la splendida sequenza nello spazio in cui Wall-e e Eve danzano fra le stelle, come facevano (a terra) i protagonisti del musical amato dal robottino.

Naturalmente straordinario, e ancora più avanzato rispetto alla meravigliosa ultima opera della casa Ratatouille, è il livello tecnico raggiunto dal film con una regia sempre più da “cinema live-action” con l’aggiunta di complesse messe a fuoco e un uso accuratissimo dello zoom; ma la grandezza della Pixar non sta principalmente in questo, ma nelle storie che si vengono a raccontare, negli intrecci narrativi, che la fanno diventare la vera grande (e di lusso!) erede dell’immensa tradizione della Disney: si era partiti facendo parlare (e facendo tornare alle credenze dell’infanzia) i giocattoli di una cameretta, passando (fra gli altri) al geniale ribaltamento delle prospettive mostri-bambini per poi arrivare ad un topolino che sogna di diventare un grande chef a Parigi, fino a questa straordinaria storia d’amore fra robottini di mondi (apparentemente) diversi.

Mentre la Dreamworks continua a fare aritmetica (pavloviana, si potrebbe dire), la Pixar continua a fare Arte: un cinema, il loro, talmente alto da essere classificabile fra le migliori forme artistiche immaginabili, e possibili, al giorno d’oggi.

 

 

Chimy

Voto Chimy: 3,5/4

 

 

 

           

 

 

Premessa: è difficile aggiungere molto dopo le parole di Chimy che condivido in ogni sillaba. Cercherò di parlare d’altro, senza ripetere quanto già detto, in quanto da me condiviso.  

 

Wall-E inizia come un musical, continua come un muto e finisce come 2001: odissea nello spazio. Wall-E è storia del cinema.

Nella panoramica iniziale, che sovrasta una landa desolata, solcata da uno skyline di rifiuti, la musica di Hello Dolly è significativa: la sotto, nel nulla, c’è ancora qualcosa di buono.

Questo qualcosa è Wall-E: Waste Allocator Load Lifter – Earth class. Wall-E è la vecchia generazione, che vive nei, e con, i ricordi. Wall-E colleziona, cataloga ciò noi chiameremmo cianfrusaglie. Wall-E, infatti, ad un anello con diamante preferisce lo scatolino che lo contiene.

Ma Wall-E è, nel film, l’unico terrestre rimasto in vita. E’ la memoria storica della terra, in quanto gli umani, di terrestre, non hanno più nulla. E’ Charlot, un “eroe” del cinema muto, comico e non umoristico, che porta nell’animazione quella componente slapstick che si fa sempre più rara. Ma Wall-E, come i rifiuti che deve sistemare, è lui stesso un rifiuto. E’ il rifiuto di un cinema, quello muto, di cui non potremmo mai liberarci, perché è l’inizio del cinema. La spazzatura, in fondo, non può scomparire nel nulla. Ma Wall-E, allora, è anche la dimostrazione che non è davvero spazzatura, se può tornare con questa forza.

E il cinema muto ritorna, nella parte di film ambientata sull’astronave, in un piccolo e breve segmento dello schermo quando il comandante chiede informazione al computer relative alla parola “terra”. In quel momento appare il seminatore del cortometraggio di D. W. Griffith A Corner in Wheat. Questo cortometraggio del 1909 è il primo esempio di “film-saggio”, nel quale si vuole dimostrare l’impatto devastante per i poveri e i contadini se fosse attuata una malsana speculazione finanziaria sul mercato del grano. Che Wall-E, in qualche modo, possa essere un “film-saggio”? La risposta, probabilmente, è affermativa. Nel film, infatti, sono contenuti una serie di messaggi stratificati e diversissimi che hanno l’opportunità quasi esclusiva di arrivare ad una platea di spettatori inimmaginabile. Tutti (o quasi) vedranno Wall-E, ma questi tutti, comprenderanno i messaggi? La risposta, purtroppo, è quasi certamente negativa. Il destino della terra, e il destino dell’uomo, saranno migliori di quanto visto in Wall-E? Forse saranno addirittura peggiori. La terra è ormai sfruttata e spremuta senza la sufficiente tutela, e l’uomo è ormai un essere quasi privo di personalità che ha una dipendenza da digitale, visivo e auditivo. Lo schermo, la televisione, sono «l’unico e vero occhio dell’uomo» (Videodrome), mentre la comunicazione non può che avvenire con la mediazione tecnologica (telefono, videotelefono, ecc). L’uomo non si muove, mangia e beve senza dover masticare, non produce e si limita a speculare.

Ma in fondo, la Pixar, ci vuole anche dire, forse, che c’è una speranza. Venire a contatto con qualcosa di vivo, come una pianta, è come scoprire l’esistenza di una razza aliena. Crea  consapevolezza verso sé stessi e la propria natura. Lottare, per la prima volta, per (ri)ottenere un passato che non si conosce, ma che si sente proprio, è la linfa vitale di cui l’uomo (odierno e) futuro avrà bisogno.

Ma, in fondo, un manipolo di uomini obesi e con una struttura ossea debole, potranno mai far rinascere una terra distrutta anche dalle proprie mani? Che Stanton abbia voluto lasciare un leggero velo di pessimismo? Chissà.

Due parole sulla regia. Stanton sceglie due stili piuttosto diversi tra la prima parte sulla terra e quella sull’astronave. Nel primo caso il paesaggio è coperto di nebbia e foschia, Stanton quindi sfrutta la messa a fuoco, lo zoom, la “camera a mano”.  Su questo punto si potrebbe articolare un discorso complesso sul cinema d’animazione, ma non è il caso in questa sede. Comunque Stanton sceglie una regia adatta alla realtà che la circonda, a differenza della parte sull’astronave, più nitida, pulita, con punte d’azione e una gran profondità di campo.

Per concludere, Wall-E è post moderno. Ma perché sfrutta un mezzo (l’animazione digitale), un genere (la commedia romantica), che viene rimodellato, riempito di significato, e dove viene cambiato il punto di vista (non oggettivo, non soggettivo, ma collettivo). Wall-E potrebbe essere avanguardia, se restasse confinato come molti dei lavori d’animazione (e non) in un mondo elitario, ma è invece propaganda. Non politica, ma umana.

 

 

Para

Voto Para: 4/4

Il cavaliere oscuro: why so serious?

Non so da quanti anni a questa parte non succedesse che un film uscito in Italia in piena estate si rivelasse una delle migliori opere dell’intera stagione.

E’ successo oggi. Luglio 2008. Una data nella storia delle uscite cinematografiche degli ultimi anni.

Il cavaliere oscuro va oltre ogni più rosea aspettativa su questa chiusura di stagione.

Un film strepitoso. Perché? Perché è un esempio di Cinema assoluto, totale, perfetto in tutte le sue singole componenti.

Regia? Christopher Nolan realizza la sua migliore opera (anche con un certo distacco) dai tempi del capolavoro Memento, (ri)confermandosi un regista di altissimo livello che tiene perfettamente a bada le redini di questo film gigantesco per tutta la sua durata (2h35m).

Sceneggiatura? Spesso questo è uno dei tasti dolenti dei film del genere, invece in questo caso ne è in assoluto uno dei maggiori punti di forza. I personaggi sono “scritti” magnificamente a partire dal protagonista: Batman, mai così scuro e tormentato, abbraccia totalmente la sua natura di anti-eroe, accettando la sua posizione “oscura” e ambigua nei confronti di Gotham City. Dopo di lui, straordinaria la rappresentazione del personaggio di Harvey Dent e della sua “trasformazione” in Due facce.

Montaggio e fotografia? Ogni inquadratura, ogni stacco di montaggio, ogni movimento di macchina, portano con sé un senso profondissimo. Un peso formale e contenutistico davvero difficile da assimilare immediatamente ma che ci accompagnerà a lungo nei giorni seguenti la visione.

Interpretazioni? Perfetta anche la scelta del cast. Bene Bale (probabilmente addirittura il meno bravo del gruppo a parte la Gyllenhaal), sorprendente Aaron Eckhart e magnifici tutti gli interpreti secondari: da Michael Caine a Morgan Freeman arrivando ad un perfetto Gary Oldman che, per questo film, è davvero da applaudire a lungo.

Scene magnifiche? Tante, troppe. Tutta la parte in prigione. Tutta la parte ad Hong Kong. Ma forse la migliore di tutte è un finale memorabile in cui Batman gira il volto di Due facce dalla parte “cattiva” a quella “buona”: il viso che vuole che rimanga nella mente degli abitanti di Gotham quando ripenseranno ad Harvey Dent.

Spettacolo? Come il genere necessita, Il cavaliere oscuro è un film ampiamente spettacolare che tiene incollati alla poltrona per tutta la sua durata; facendo impallidire filmetti di registucoli dello stesso genere usciti negli scorsi mesi in sala.

Cosa ne fa però un’opera così importante? Le cose dette finora certo fanno pensare ad un buonissimo film, ma quello che lo fa diventare così grande è il riuscire a parlare con estrema forza e intelligenza del mondo in cui viviamo. Nolan è riuscito in un miracolo cinematografico coniugando perfettamente l’esigenza spettacolare ad una potenza di riflessioni forse inedita per il genere.

Riflessione che trova il suo apice proprio in quel gesto di Batman di girare il volto di Due facce. La necessità di mantenere un esempio positivo in un mondo in cui il Male sembra prendere nel suo vortice tutto e tutti. La scelta di Batman di prendersi la colpa, di scappare dalla polizia, perché lui è il vero eroe di Gotham, anche se non è quello di cui la città aveva bisogno in quel momento.

Ho dimenticato qualcosa? Sì, ma meritava una parte a sé il Joker di Heath Ledger che è l’elemento forse più importante di tutto il film. Un personaggio che rimarrà nella storia del cinema. Magnificamente scritto, pieno di una profondità psicologica che sta proprio nel non averne alcuna.

Ognuno può sentirsi più o meno in difficoltà a giudicare l’interpretazione di Heath Ledger, ognuno è libero di pensare se sembri retorico esaltarlo eccessivamente. Per me non lo sembra e non ho problemi a dire che la sua è una delle migliori interpretazioni degli ultimi anni e a ribadire ancora una volta che stiamo parlando di uno dei più grandi interpreti della sua generazione.

Forse vorremmo che il prossimo film di Terry Gilliam non uscisse mai per non vederlo sapendo che è l’ultima volta che ammireremo questo gigantesco attore.

Quindi, in conclusione? Un personaggio da storia del cinema, regia ottima, grandi interpreti, spettacolo e riflessioni fondamentali, il miglior cinecomic mai fatto, uno dei film dell’anno…

In poche parole? Un raro esempio di Cinema perfetto. Clap clap…


Chimy

Voto Chimy: 3,5 / 4

Parlare de Il cavaliere oscuro non è così complesso. Non servono analisi, rimandi, teorie sul caos.

Il cavaliere oscuro spacca. Punto.

E il motivo è semplice: dura due ore e mezza e c’è tanta, tantissima, carne al fuoco. E nonostante questi due particolari, che di solito distruggono il giudizio di un film, Il cavaliere oscuro resta uno dei migliori film degli ultimi mesi. Perché il ritmo non ha mai un calo e la mole di intrecci che vengono narrati è sviluppata e incastrata egregiamente.

Il cavaliere oscuro è strutturato in tre filoni che riguardano i tre personaggi principali: Joker, Harvey Dent e Batman. Ma a ben vedere i tre filoni diventano ben presto 6, perché ognuno di essi è doppio: Joker vale doppio già di suo, Harvey Dent/ Due facce, Batman/Bruce Wayne. Inoltre, tra i gruppi di sequenze che riguardano uno dei personaggi viene spesso posta una sequenza in cui due di loro si incontrano/scontrano. Questo rende il film narrativamente equilibratissimo, senza far avvertire mai nello spettatore sensazioni di mancanza o di insistenza verso particolari momenti della pellicola.

Forse, però, sotto questo punto di vista si può fare una precisazione, che è, molto soggettivamente, un pregio od un difetto: durante la visione non si fa altro che desiderare di vedere il Joker sullo schermo.

Ecco che, come accadeva nel Batman di Burton, nei fumetti o nella serie animata televisiva, l’importanza e la pregnanza del Joker si fanno sempre sentire pesantemente. In più ne Il cavaliere oscuro, questa necessità di assistere alle gesta del Joker è motivata non dalla presenza di Heath Ledger che interpreta il Joker, ma del vero Joker, uscito dalla carta del fumetto, meglio del Joker di Burton, perché Jack Nicholson è il “padre” e Ledger il “figlio”, e “il buon sangue non mente”, soprattutto quando il padre è un buon maestro e il figlio un buon allievo.

Joker, vera e propria antitesi di Batman/Bruce Wayne, incarna l’elemento disturbante ed imprevedibile di cui non si riesce a fare a meno, perché la sua presenza è di per sé motivo di sorpresa e “divertimento”, anche se limitata all’attesa di un suo gesto sconsiderato.

Oppure, molto semplicemente, il Joker è meglio di Batman. Perché è più “bravo”, furbo e più intelligente. Batman è un capitalista, la sua forza sono i soldi. Il Joker, i soldi, li brucia. Ditemi voi, ora, chi è meglio dei due.

Noi bravi spettatori italiani, inoltre, abbiamo avuto la possibilità di gustarci un’ennesima doppia faccia del film, inedita al pubblico statunitense: Adriano Giannini doppia il Joker de Il cavaliere oscuro, dopo che il padre, Giancarlo Giannini, doppiò il Joker del Batman di Burton. E se delle volte la sua voce sembra scimmiottare il padre, poco importa, perché il Joker è uno soltanto, semplicemente ha molte anime.

Per finire, un appunto: Joker (Heath Ledger) muore, Batman (Christian Bale) picchia la madre e la sorella per questioni di soldi. Inquietante?


Para
Voto Para: 3/4

Gomorra: un film che non si guarda, si abita…

Gomorra” non è soltanto un’assonanza fonetica con camorra. Gomorra, insieme a Sodoma, venne rasa al suolo da Dio in quanto città di perdizione e depravazione. Napoli è Gomorra, la città della camorra, e non verrà rasa al suolo da Dio, ci penseranno direttamente i napoletani a radersela al suolo.

La criminalità organizzata è un substrato culturale indissolubile, inevitabile, auspicabile, desiderabile. E’ un riflesso del mondo e della società e come tale è riflesso da ciò che il mondo e la società producono. Industria, pubblica sicurezza, politica, droga, edilizia sono sotto e dentro i meccanismi criminosi. E i meccanismi criminosi sono oggetto di produzione e riflessione: letteratura, storia, cinema. Il crimine organizzato non è soltanto organizzato, ma si organizza dentro ogni cosa ed ogni uomo.

Marco e Ciro idolatrano Tony Montana, ma è obiettivamente possibile farlo, nel loro caso: anche se esagerano vivono in una realtà dove non è impossibile riuscirci. Soprattutto loro sono già dentro un film (o un libro).

Tonì osserva gli spacciatori di Scampia, luogo in cui vive, con curiosità: il guadagno è alto, il lavoro è poco.

Don Rino è un porta soldi per le famiglie che appoggiano il clan per cui lavora.

Roberto è l’apprendista aiutante di Franco (Toni Servillo for president), attivo nel campo dello smaltimento di rifiuti tossici, un professionista nell’avvelenare la terra, in questo caso campana.

Don Pasquale è un sarto abile nella falsificazione, che cede nell’insegnare (dietro lauto compenso) la propria arte ai cinesi.

“Gamorra” è un sentiero attraverso le vite di questi personaggi, pedine minuscole nel grande sistema criminoso. Nessun boss, niente intrighi d’alto rango. Il solo ingresso in scena dei pezzi più grossi è, paradossalmente, per eliminare i più deboli, i due aspiranti Tony Montana, addirittura gli unici due volutamente fuori dal gioco delle famiglie, ma dentro al gioco del crimine.

“Gamorra” non si guarda, si abita. Garrone invita lo spettatore a diventare napoletano, lo fa diventare abitante di quei luoghi e di quel tempo. Musica solo on the air, riprese a mano, posizione della macchina da presa e movimenti non tradiscono mai l’umanità dell’occhio che osserva l’azione. Solo in una sequenza ciò non accade: don Rino, il porta soldi, esce da un appartamento, unico sopravvissuto ad una strage, e la macchina da presa lo segue, ma comincia a muoversi lentamente verso l’alto, osservandolo camminare tra i cadaveri, per poi lasciarlo fuggire, in lontananza. In questo movimento di macchina c’è la chiara volontà del regista ad allontanare lo spettatore per un attimo dalla terra bruciata e pregna di sangue. C’è la volontà di staccarsi da quella violenza, dal risultato di una guerra. Si muove verso l’alto, per dichiararsi al di fuori, anzi al di sopra, di quello che è successo. Per il resto “Gomorra” assorbe lo spettatore con una presa ed un efficacia rarissima, non c’è momento, a parte quello sopracitato, in cui il flusso estranei lo spettatore, anzi, ogni momento che passa l’inserimento è quasi irreversibile. E a ben vedere, anche in quella sequenza, il movimento di macchina, nonostante esca dalla fisicità umana, segue la volontà inconscia dello spettatore.

“Gamorra” è arrivare ad essere tesi, nel timore di sentire partire un colpo di pistola, consci del fatto che il bersaglio può essere chiunque.

E’ una domanda, quella che Garrone vuole farci con “Gomorra”: voi, cosa decidete, uscite dal gioco o ci restate? E se ci restate, è perché lo volete o perché siete obbligati? Non c’è molta scelta, in fondo, ma siamo tutti abitanti di Gomorra, e bisognerebbe darsi una risposta.


Para

Voto Para: 3,5/4

L’ingresso nel labirinto…

 

Gomorra è un film di soggetti.

Soggetti che si aggirano senza scampo in un labirinto in cui non si riesce a trovare l’uscita.

Lo sguardo del regista li segue nella loro quotidianeità come se cercasse un modo per aiutarli. Ma nemmeno lui può fare niente…

Pian piano che ci ritroviamo sempre più immersi nella visione, ci rendiamo conto che quello sguardo è anche il nostro: uno sguardo che cambia angolazione, punto di vista, spazio e tempo… ma che si ritrova sempre a guardare le stesse situazioni in ogni direzione in cui è rivolto.

Come in un incubo da cui non ci si riesce a svegliare, i soggetti del film non riescono a sfuggire al male, alla criminalità, alla corruzione… ma forse, ormai, non ci tentano neanche più perchè hanno capito che scappare dal labirinto di Gomorra è impossibile.

 

 

Il centro del labirinto: l’audiovisione

 

 

Matteo Garrone riesce a dominare con efficacia spaventosa la materia audiovisiva che si ritova davanti, arrivando a regalarci una lezione registica che porta certamente Gomorra sul podio italiano del nuovo millennio.

 

Video: Non potevano essere altro che le soggettive (false o vere che siano) le modalità linguistiche con le quali Garrone ci porta al centro di questo labirinto inestricabile.

Ma il regista romano non si ferma a queste.

Gomorra è girato con piani-sequenza da brividi (in ogni senso), in cui spesso partendo dalla luce della (in)certezza si va a finire nelle tenebre dell’orrore.

Una coralità altmaniana di figure perdute viene rappresentata con un rigore visivo simil-dardenniano. La macchina non lascia mai soli i suoi soggetti, li sostituisce con altri per poi tornare dai precedenti, ma le situazioni non sono cambiate.

Le composizioni delle inquadrature non sono mai aperte, ma sembrano racchiudere ancora di più uno spazio che si fa sempre più claustrofobico.

Una piscina sulla terrazza del soggetto-palazzo, una sposa costretta a farsi seguire dal suo corteo in un corridoio strettissimo.

L’oltre spazio Sokuroviano qui non esiste. L’esterno non resta più fuori campo, diventa uno spazio addirittura extra-diegetico, poichè inesistente per i soggetti della narrazione.

Rimane solo lo sguardo ad isolarsi dall’ambiente. Uno sguardo plongée che segue un uomo “neutrale” costretto a camminare fra cadaveri abbandonati, o uno sguardo contre-plongée che mostra come sia troppo alto il muro da scalare per poter uscire dal labirinto.

 

Audio: Non vi è quasi mai della musica da buca in Gomorra. La colonna sonora è composta da grida, spari e da canzoni ascoltate dai soggetti.

I suoni che sentiamo fuori campo creano delle immagini agghiaccianti tanto quelle che abbiamo davanti agli occhi.

In questo senso, diventa magistrale una sequenza in cui vediamo alcuni ragazzi ballare con in sottofondo una celebre canzone commerciale. Sembra per qualche secondo di essere tornati alla “realtà”: un ragazzo prova a far ballare con lui una ragazza, che annoiata lo rifiuta.  Purtroppo non è così, non siamo ancora fuori. Dopo alcuni secondi, si sentono degli spari e vediamo a terra un ragazzo morto.

Gli spari si vanno a sovrapporre con la canzone alla radio, che orgogliosa non smette di suonare nonostante il tragico avvenimento.

Quella musica, che ci dava qualche attimo di allegria e speranza, ha reso (al contrario) questa sequenza ancor più agghiacciante e terribile.

 

 

Fuga dal labirinto…

 

 

Forse l’ultima speranza per evadere dal labirinto Gomorra ce la danno Marco e Ciro.

I due decidono di lavorare da soli, di non stare sotto nessuno, di fare la “Guerra” agli altri.

Potrebbe essere questo un modo di fuggire dal sistema?  Staccarsene e fare così di testa propria? Purtroppo no, non c’è via di uscita.

Marco e Ciro escono dal labirinto, ma nel modo sbagliato: morendo.

Ora non valgono neanche quanto quei rifiuti tossici, dai quali il personaggio di un allucinante Toni Servillo (straordinario, perfettamente inserito nella recitazione realistica dei ragazzi della strada, quasi da farci dimenticare il “divo” che è) guadagna, e fa guadagnare, molto denaro.

Il film finisce con delle didascalie che non riescono minimamente a toccarci, dopo che abbiamo visto e vissuto un orrore così grande.

Si accendono le luci. Ora finalmente, almeno noi, siamo usciti dal labirinto Gomorra.  

Oppure no?

 

Chimy

Voto Chimy: 3,5/4

It's Not Her Sin: il grande cinema di Shin Sang-ok, un fiore nell'inferno coreano post-bellico

Uno sparo. Due donne s’inseguono sulle scale del Ministero degli Esteri coreano; una delle due prende una pistola che le cade dalla borsetta e spara all’altra donna che cade a terra ferita alla gamba.
Così inizia il grandioso film "It’s Not Her Sin" diretto nel 1959 dal padre del cinema coreano, Shin Sang-ok (nella foto), che è stato omaggiato con una splendida retrospettiva dal Far East Film Festival 2008.
Prima di concentrare l’attenzione sul film sopradetto, mi sembra giusto raccontare nello specifico la vita di questo regista, purtroppo poco conosciuto, che ha avuto un’esistenza che sembra perfetta per essere raccontata in un film (le notizie sono prese dalla guida del FEFF 2008).
Shin Sang-ok nasce nel 1925 e inizia a lavorare come regista durante la guerra di Corea, i cui risvolti sono stati trattati in profondità nei suoi film della fine degli anni ’50 (proprio quelli visti a Udine).
Questi film iniziarono a portare a Shin un buon successo in patria, grazie anche alla presenza fissa della diva Choi Eun-hee, che diventerà anche la moglie del regista.
Gli anni ’60 furono l’apice del successo per Shin Sang-ok, i cui film venivamo costantemente apprezzati e premiati.
Negli anni ’70 iniziarono invece grandissimi problemi: la censura della presidenza coreana non gli permise più di fare film alle condizioni che voleva e, addirittura, nel 1975 gli venne revocato il permesso di lavorare nell’industria cinematografica del paese.
Il vero dramma inizierà però qualche anno dopo.
Durante un viaggio a Honk Kong, nel 1978, sua moglie sparì; Shin cercò in tutti i modi di ritrovarla, quando una sera, mentre era sulle tracce della donna, venne colpito in un vicolo da una borsa in testa e perse i sensi.
Choi e Shin erano stati rapiti da agenti della Corea del Nord, e vennero portati nella capitale Pyongyang su ordine di Kim Jong-il che sperava, con lui, di far (ri)nascere l’industria cinematografica nordcoreana.
La coppia trascorse i primi 5 anni in celle separate dopo aver rifiutato di cooperare, ma fu poi riunita e i due ripresero a fare film insieme.
Dopo aver realizzato per il governo dittatoriale 7 lungometraggi (prevalentemente di propaganda), i due fuggirono, nel 1985, durante un viaggio in Europa, chiedendo asilo all’ambasciata americana di Vienna. Poi si trasferirono a Hollywood, dove Shin lavorò come produttore, prima di tornare in Corea del Sud.
Recentemente sono state fatte importanti retrospettive per far conoscere al mondo quest’importantissimo regista, nel 2001 al Pusan Film Festival e nel 2002 al MoMa di New York.
Shin Sang-ok è morto, nel 2006, ad ottant’anni nell’amata Seoul, la città che per anni gli era stata negata e dove ora sua moglie vive ancora.
Impressionante la storia della vita di Shin Sang-ok, ma altrettanto impressionante è la magnifica storia che racconta in "It’s Not Her Sin".
Dopo il folgorante incipit di cui si è scritto ad inizio post, scopriamo che le due donne sono sorelle adottive. Durante il processo, entrambe insistono sull’innocenza dell’altra ("Non è suo il peccato, ma mio!") e, quando si rivedono, si scusano l’una con l’altra e si abbracciano.
Davanti al pubblico ministero i racconti del passato delle due ci faranno capire quali furono le cause di quel gesto.
Young-sook (interpretata dalla moglie del regista, la bravissima Choi Eun-hee), la donna ferita alla gamba, aveva una relazione sentimentale con un uomo sfrontato che l’ha messa incinta e che non voleva prendersi cura del bambino.
L’uomo consiglia alla donna di abortire, ma Young-sook pensa invece di lasciare il bambino a Sung-hee, (la donna che successivamente le sparerà) sua sorella adottiva, che era felicemente sposata, ma non poteva avere ciò che più desiderava: un figlio.
Le due allora fanno un patto di silenzio: approfittando della lunga assenza del marito di Sung-hee, non riveleranno a nessuno il loro segreto e fingeranno che il figlio sia proprio nato dal ventre della sorella maggiore.
E’ davvero impressionante come nel 1959 sia stato fatto un film con alla base una tematica così attuale, quella della scelta di tenere un figlio, protagonista recentemente di un film apprezzatissimo come "Juno", uscito soltanto un mese fa.
Shin Sang-ok ha, inoltre, un’attenzione alla psicologia delle figure femminili, pari soltanto a quella di pochissimi altri grandi registi della storia del cinema (Mizoguchi, Preminger…); il suo è un cinema attento ai problemi sociali, nella travagliata epoca postbellica coreana, ma che sempre si collegano alle vite dei singoli e alle loro difficili scelte in un momento tanto contradditorio.
Il bambino nasce, passano i primi anni, e tutto sembra andare per il meglio fino a quando l’ex ragazzo di Young-sook, ora sposata felicemente con un uomo, non scopre tutto e la ricatta per tenere la bocca chiusa.
Quest’elemento è in realtà però di poco conto nello sviluppo narrativo; il vero ostacolo che nasce nel patto di silenzio fra le due è il richiamo materno di Young-sook, che (come falsa zia) si avvicina sempre più a suo figlio e non riesce più a distaccarsene.
Quel bambino è tutto per entrambe le donne, nessuna vuole più lasciarlo all’altra.
Young-sook allora parte per il ministero per svelare tutto, ma (come già sappiamo) Sung-hee in preda alla follia le spara per fermarla.
Alla fine del lungo racconto flashback, il giudice le lascia andare e Sung-hee dice a Young-sook che può riprendere suo figlio.
Arrivate alla casa di Sung-hee, vediamo il bambino "oggetto del desiderio" delle due che piange commosso per il ritorno della madre, che non vedeva da diversi giorni.
Esce dalla casa e corre gridando: "Mamma!, mamma!"; Young-sook si avvicina e si china per abbracciarlo, ma il piccolo la supera perchè i suoi occhi e la sua corsa sono indirizzati a Sung-hee, la donna che lui ha sempre considerato la sua vera madre.
Young-sook, triste, si allontana e lascia "suo" figlio a "sua" madre.
Un finale commovente e crudele, in cui Shin Sang-ok ci lascia delle infinite domande: è un finale dolcemente positivo? O tragicamente negativo? Il bambino ha "scelto" la donna che l’ha cresciuto e che ha sempre chiamato mamma, è la cosa più giusta?
Certamente questa è la conclusione più bella e profonda che un film splendido come questo potesse avere.
Nella magnifica tavolata dei grandissimi registi asiatici della metà del ‘900 aggiungete pure un posto per Shin Sang-ok.

Chimy

Voto Chimy: 3,5/4