The Hurt Locker: i fili della guerra…

E’ ormai sotto gli occhi di tutti che l’Iraq sia (naturalmente) diventato il nuovo Vietnam cinematografico per gli Stati Uniti.
A differenza delle opere filone precedente, fatte soprattutto dopo il termine del conflitto, quelle sull’Iraq ragionano in corrispondenza degli scontri tutt’ora in corso.
In questo blog si è molto spesso scritto della straordinaria capacità del cinema statunitense degli ultimi anni di riuscire (più di tutti gli altri, mostrando la sua attualmente inarrivabile forza di riflessione) a parlare con estrema forza dell’attualità della società americana e, più in generale, del mondo in cui stiamo vivendo.
Le opere sull’Iraq che, vista la loro estrema contemporaneità con gli eventi presenti in medio-oriente, dovrebbero essere capisaldi di questo discorso, in realtà non sempre hanno la visione assoluta e necessaria per attuare le riflessioni che cercano di compiere all’inizio. Per fare un esempio concreto: Il cacciatore era (è) un film enorme, assoluto, poichè aveva una visione completa della guerra (il prima, il durante, il dopo). Questo naturalmente è solo in parte possibile da realizzare per i film sull’Iraq, che possono sì avere una visione completa del particolare (il singolo) in campo ma faticano ad avere (come storicamente giusto che sia) una visione complessa dell’universale che raccontano (il personaggio di De Niro era questo ne Il cacciatore).
L’effetto di tali cause è quello che i film sulla guerra in Iraq, in questo momento, faticano ad attuare riflessioni che possano aggiungere qualcosa di veramente valido rispetto alle opere precedenti di tale filone.
Interessante è, in questo senso, il caso di The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, visto alla scorsa Mostra di Venezia.
La bravissima regista del capolavoro Strange Days parla della vita degli artificieri in Iraq che ogni giorno rischiano la vita cercando di disinnescare bombe e ordigni esplosivi.
La Bigelow, conscia del discorso fatto in precedenza, punta quindi obbligatoriamente sul particolare (gli artificieri, appunto) senza poter arrivare a quell’universale che ci avevano regalato i film sul Vietnam nei ’70 e ’80.
Altrettanto interessante risulta il linguaggio utilizzato dalla regista.
La regia è certamente solida, la camera è in costante movimento quasi a voler penetrare la guerra portandoci nelle zone di battaglia. Ricrea bene quel concitamento assuefativo che vivono i soldati, anche se (come spesso accade) i momenti maggiormente "di tensione" sono quelli statici.
C’è la convinzione (punto cruciale che riassume anche il pensiero precedente) però che questa regia, "ad effetto" per tutta la lunga durata della pellicola, sia in realtà un tentativo (riuscito ma repulsivo allo stesso tempo) di colpire gli spettatori con immagini rapide, con un ritmo spesso forsennato, per nascondere l’assenza di una vera riflessione profonda che dovrebbe stare oltre le immagini: in quell’invisibile che è l’unico luogo dove si possono realizzare quelle opere assolute che, trascurando il particolare, arrivano ad innalzarsi nell’universale.

Chimy

Voto Chimy: 2,5 / 4