Valzer con Bashir: un documentario fatto di frammenti di memoria compromessa


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Valzer con Bashir è un documentario, un documentario fatto di frammenti di memoria compromessa. Valzer con Bashir non è però un semplice documentario, e non è nemmeno il primo documentario animato della storia del cinema; nel 1918, infatti, il grande Winsor McCay realizzò The Sinking of the Lusitania, che ricostruiva la tragedia dell’omonimo transatlantico affondato.

Ari Folman, regista e scrittore di Valzer con Bashir, sfrutta l’animazione per realizzare ciò che sarebbe stato altrimenti irrealizzabile, e soprattutto ciò che, altrimenti, avrebbe mancato di forza comunicativa. Alle interviste, che sembrano realizzate in rotoscope, cioè “disegnando” sopra le riprese dal vivo, mantenendo così i movimenti umani fedeli, alterna frammenti onirici, ricordi di guerra, ricostruzioni dei racconti fatti dagli intervistati. Per la realizzazione di questi frammenti, Folman utilizza l’animazione tridimensionale in cell shading, che permette un aspetto “cartoon” sfruttando i vantaggi dell’ambiente tridimensionale.

Ari Folman vuole infatti raccontare ciò che è stato rimosso dalla sua memoria, e forse anche dalla memoria collettiva: la strage di Shabra e Shatila. Lo spunto narrativo parte da un sogno di un amico del regista, tormentato dall’incubo di 26 fantasmi, i 26 cani che uccise durante una missione della guerra civile libanese degli anni ’80. Lo spunto per cercare la verità, che Folman si accorge di aver rimosso dalla memoria, nasce dalla fantasia, dalla manipolazione subconscia del sogno. Proprio dei sogni, e dei ricordi compromessi, si compone la parte espressivamente più potente della pellicola.

Unico indizio da cui partire, è per Folman l’immagine ricorrente di una spiaggia, dove si trovava con alcuni commilitoni. Qui i tre si muovono verso la città, seguendo la luce dei razzi al fosforo, come stelle dell’avvento della morte. Quel ricordo è reale? I suoi compagni erano davvero con lui? Perché non ricorda altro dei giorni della strage di Shabra e Shatila?

Il ricordo è compromesso, non solo il suo, nessuno è sicuro di ciò che racconta. Il deposito dati della memoria non è sufficientemente sicuro.

Valzer con Bashir, oltre ai meriti artistici, ha un grosso merito, quello di dimostrare la potenza, e il realismo, o meglio la credibilità effettiva, dell’animazione. Valzer con Bashir ha molta più incisività e potenza di qualsiasi altro documentario classico, con interviste filmate, materiali d’archivio o ricostruzioni fiction. Midhat Ajanovic, autore del fondamentale volume Animazione e realismo (parte di ciò che segue è tratto da questo libro), ricorda come il dogma della fotografia come mezzo di presentazione realistica ha fatto sì che il disegno non venisse mai accettato alla stessa stregua. Ma la differenza è solo che se nel primo caso abbiamo impressioni fotografiche di attori in carne e ossa, nel secondo abbiamo solo evoluzioni di disegni su carta, ma che riconosciamo come persone, senza possibilità di errore. Anche la fotografia non garantisce somiglianza assoluta (basta cambiare obiettivo, luci, angolazione), e di conseguenza il disegno può essere tanto (ir)realistico quanto la fotografia, e viceversa. Per comprendere il cinema, dunque, più che al realismo ci si dovrebbe affidare alla verità artistica. Per citare anche Tarkovskij: «L’arte è realista quando cerca di esprimere un ideale estetico. Il realismo è lo sforzo di trovare la verità, e la verità è sempre bella».

Proprio una ricerca della verità è ciò verso cui si muove Ari Folman in Valzer con Bashir, e per farlo sceglie l’animazione. Quindi, se il realismo è una visione comunemente accettata della realtà, mentre la verità è la soggettiva realtà di un individuo, persino il cinema dal vero non è che un’idea individuale sviluppata, e che quindi non può trasmettere la realtà e la vita nella sua interezza. Di nuovo Tarkovskij: «Solo il creatore del film possiede l’oggettività artistica, che è quindi soggettiva, anche se si tratta semplicemente di montare un documentario». Sempre Tarkovskij ci parla dell’interessante divisione tra verità scientifica ed artistica: «In campo scientifico si segue la conoscenza del mondo che, gradualmente, si ripete nel processo infinito nel corso del quale noi rimpiazziamo le vecchie conoscenze con quelle nuove. Questo è fatto nel nome della verità oggettiva, seppur parziale. La rivelazione artistica ci offre ogni volta un’immagine del mondo completamente nuova e unica, un altro geroglifico nella strada verso la verità assoluta».

Valzer con Bashir rappresenta una mediazione tra la verità scientifica (in questo caso storica) e quella artistica. E non poteva essere fatta scelta migliore, perché, come sosteneva anche H.G. Wells (scrittore fantascientifico di inizio secolo), «l’animazione può raccontare verità sociali in modo altrimenti non realizzabile, perché gli animatori possono sfruttare il confine tra il reale plausibile e l’apertamente surreale in modo da esporre la falsità dell’oggettività ed inoltre mettere in dubbio le certezze ideologiche e gli illusori dogma culturali».

Ari Folman sfrutta proprio questo concetto, rende la realtà filmata (le interviste) animazione, e le intervalla al completamente surreale delle visioni oniriche. In questo modo Ari Folman giunge alla verità, al cuore della strage di Shabra e Shatila.

Ma a questo punto, sulle ultime immagini del film, ci si chiede, perché utilizzare, solo in chiusura, filmati di repertorio delle vittime fisiche e morali di quella strage? La sensazione è straniante, da una parte la realtà fotografica negata fino ad allora, dall’altra la triste sottovalutazione della propria scelta artistica, l’animazione, di fronte ad desiderio, e alla necessità, di dare allo spettatore scettico dinnanzi al mezzo animato quella realtà fotografica senza la quale non capirebbe quanto di vero e reale c’è stato fino ad ora.

 

 

Para

 

 

Voto Para: 3/4

 



Difficile aggiungere qualcosa alla bellissima recensione del Para, ma ci proviamo.

Valzer con Bashir è un film in cui la componente autobiografica è presente in maniera davvero rara per il cinema odierno.

Quest’opera, che ha appena vinto il golden globe per il miglior film straniero, può essere letta come una sorta di seduta psicoanalitica del regista Ari Folman al quale noi-pubblico possiamo assistere.

Ari Folman con l’aiuto di alcuni amici e di persone intervistate cerca di ricordarsi quanto avvenne in Libano nel 1982; fatti che la sua mente ha cercato di rimuovere. In questo senso il film è, a suo modo e non per tutta la sua durata, un documentario. Un documentario realizzato in animazione.

Ciò che risulta particolarmente interessante diventa quindi la doppia "ricerca" di Ari Folman.

Una ricerca "diegetica", interna alla narrazione, in cui il "personaggio" Folman cerca di ricordare la strage di Sabra e Shatila; accompagnata però anche da una seconda ricerca del "regista" Folman, esterna alle vicende narrate, che è quella della forma: il tentativo, seppur non unico (come scritto sopra) nella storia del cinema ma comunque altamente innovativo, di accostare cinema d’animazione e modalità documentaristiche.

Il primo livello, diegetico, può essere visto come una sorta di ricerca proustiana (o post-proustiana come ha scritto l’amico Lorenzo Conte nella sua ottima recensione sul film su Zabriskie Point) in cui alla ricerca del tempo perduto si va a sostituire una esplecita ricerca del tempo rimosso. Come diceva anche lo stesso Proust però il recupero del passato non è sempre possibile e quello di Folman sarà un viaggio tortuoso nella memoria per capire il significato di quel sogno ricorrente (sequenza fondamentale accompagnata dalla splendida musica di Max Richter) in cui lui e due suoi amici si trovano, di notte, a fare un bagno in mare mentre davanti ai loro occhi vi sono esplosioni e violenze.

Alla battuta esplicitamente proustiana di De Niro in C’era una volta in America in cui, alla domanda di cosa abbia fatto in tutti questi anni, risponde di essere andato a letto presto; ora in Valzer con Bashir invece il sonno, fatto di sogni e incubi, è l’unico luogo in cui la mente cerca di (ri)elaborare quei tragici momenti.

A questa ricerca si sovrappone quella sullo stile del film. Il lavoro del regista è davvero notevole e la modalità documentaristica unita all’animazione risulta essere pienamente equilibrata per tutta la durata della visione. Rimane soltanto qualche dubbio su quei minuti conclusivi, in cui non è facile capire fino in fondo la scelta di Ari Folman.

Colpisce nuovamente, ad un livello più generale, come il cinema israeliano riesca a ragionare con forza sulla sua terra, sul suo passato e anche sul suo futuro, molto di più (con rischio di risultare, dicendolo, retorici) di quanto facciano i loro capi di stato e i loro politici. Fondamentale era, in questo senso, un film come Il giardino di limoni, opera importantissima di cui non si è parlato certamente abbastanza al momento della sua uscita italiana.

Restava un dubbio prima e durante la prima parte della visione: perchè quel titolo così particolare? Da questa domanda la risposta è stata la scena forse più bella e significativa del film. Un soldato impazzito inizia a sparare in tutte le direzioni voltandosi e volteggiando da una parte all’altra come in una danza, accompagnato dalle soavi note della colonna sonora, sotto il volto (del gigantesco manifesto) di Bashir Gemayel.

In questa sequenza emblematica il pregio maggiore del film di Folman si va ad esemplificare: aver rappresentato perfettamente l’orrore del ricordo di quei giorni e della follia della guerra unendoli con la lirica poesia dell’arte cinematografica.

 

Chimy

 

 

Voto Chimy: 3/4