Mostra di Venezia 2009: Secondo resoconto

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My Son, My Son, What Have Ye Done di Werner Herzog

 

Chimy: Una creatura stranissima, affascinante, tratta dall’Elettra di Sofocle e trasposta ai giorni nostri con un Michael Shannon, allucinato (e allucinante) “mostro” che uccide la propria madre.

A caldo potrebbe sembrare che il film sia una perfetta commistione fra Herzog (regista) e Lynch (produttore esecutivo). In realtà, per chi scrive, più passano i giorni e più quest’opera è totalmente herzoghiana con solo qualche piccola spruzzata lynchiana.

Come speravamo dopo aver visto Il cattivo tenente-Ultima chiamata New Orleans, Herzog ritrova tutto sè stesso e tutto il suo cinema per questo progetto, che sembra il vero motivo della sua recente trasferta americana.

La presenza di Lynch è negli spazi (la provincia americana, l’ambiente famigliare che nasconde i segreti peggiori, alcuni personaggi tipici dell’universo del regista di Fuoco cammina con me), ma sopra questi mondi si innesta tutto lo stile del regista tedesco che non rinuncia nè alla sua idea di cinema (il miracolo avviene di fronte alla macchina da presa: una lattina non smetterà di rotolare), nè ai temi che hanno attraversato tutta la sua carriera.

Straordinarie le sequenze in sud-america, viaggio iniziatico-finale che apre la discesa nella follia-consapevolezza del protagonista, ancora un eroe romantico che vede un mondo diverso da quello che approcciano gli altri esseri umani. Lo stesso che vedeva Aguirre, lo stesso che vedeva Fitzcarraldo, lo stesso che continua a vedere Werner Herzog.

 

Para: In assoluto il migliore film del festival. Pellicola che regala brividi lungo la schiena in più di un’occasione. Herzog esplode di genialità e poesia dentro la follia di un ambiente lynchiano. Un detective (William Dafoe), coi suoi interrogatori a conoscenti di un incredibile Michael Shannon, attiva i racconti degli stessi, ma che sono il pretesto narrativo per costellare la pellicola di finti flashback, in quanto, in realtà, palesi ricordi del protagonista. Momenti di magnifico e puro Herzog, una fotografia splendida, una sceneggiatura (nonostante il pretesto investigativo) da applausi. Il mio Leone d’Oro assoluto.

 

 


Lourdes di Jessica Hausner

 

Chimy: Altro film davvero notevole, Lourdes è un’opera che colpisce al cuore e al cervello come forse nessun’altra vista quest’anno a Venezia.

Per tutta la prima parte (e buona della seconda) si fa fatica a capire dove la regista voglia arrivare, quale sia il messaggio che vuole portare avanti e perché lo stia dicendo. I dubbi crollano nell’ultima mezz’ora dove si giunge ad una meravigliosa parte conclusiva che spiega molte delle cose viste in precedenza e che crea una riflessione sulla “mercificazione” dei miracoli al giorno d’oggi, che tocca picchi di estremo spessore.

Sperando di vederlo presto in sala, Lourdes è un film di cui si parlerà davvero molto e mi fermo nel dare delle interpretazioni che sarà più interessante sviluppare quando tutti avranno occasione di vederlo.

Memorabile l’ultimissima inquadratura.

 

Para: un film che tiene la giusta distanza. Un film sui miracoli cristiani ma che non è poi così tanto cristiano. Se nella prima parte non si capisce davvero dove il regista voglia andare a parare, nella seconda si sviluppa addirittura il dubbio di quale sia la sua posizione morale ed ideologica. Il dubbio resta anche alla fine, ma è proprio il dubbio l’obiettivo del regista e la potenza del film.

 

 

 

Lebanon di Samuel Maoz

 

Chimy: Vera sorpresa del festival, Lebanon è un film cinematograficamente stupefacente.

Ambientato durante la guerra in Libano, il film è tutto girato all’interno di un carro armato; l’esterno lo vediamo soltanto dal mirino del carro armato stesso con il quale uno dei soldati osserva (e ci fa osservare) la guerra.

Meravigliosa idea, dove l’ “occhio del carro armato” diviene un’altra grande metafora (da ricordare) dell’occhio dello spettatore, con tutte le importanti conseguenze teoriche che ne derivano.

Una fotografia sempre toccante e delicata dà al film un ulteriore valore aggiunto, insieme anche a sequenze di rara forza poetica come una lacrima sul volto di un asino morente o un campo di girasoli che apre e chiude il film.

Leone d’Oro (anche per chi aveva altri film “preferiti”) assolutamente meritato.

 

Para: il mirino del cannone come occhio di morte che indugia sulla vita. In una graduale evoluzione verso l’incrinarsi dell’obiettivo, si arriva ad un graduale ingresso della morte dentro il carro, culla di vita, protezione ed umanità.

 

 


White Material di Claire Denis

 

Chimy: Ennesimo (pre)potente film di Claire Denis, che ragiona sulla colonizzazione europea in Africa e sui problemi che ne derivano.

Girato con estrema eleganza e forza, White Material è un’opera che ha dei momenti cinematografici di squarciante bellezza, accompagnati da uno spessore contenutistico che non si vede certo tutti i giorni.

Ottima la fotografia, accompagnata dalla (come sempre toccante) musica dei Tindersticks che accompagnano questo viaggio alienante in cui la perdita del controllo, mentale o fisico, è sempre in agguato per chiunque.

Straordinaria Isabelle Huppert, interpretazione del festival, che unisce momenti di pacata staticità a balzi di estrema forza e aggressività. Grandioso anche Isaach de Bankolé, nella parte del capo dei ribelli.

Un altro tassello importante nel mosaico della, sempre inedita in Italia, regista Claire Denis.

 

Para: Claire Denis non delude, con un film di rara raffinatezza di sguardo e di tempi. Forse non sorprendente come Cannibal love, o poetico e delicato come 35 Rhums, ma comunque una grande altra prova di bravura della delicatezza e della verità di sguardo della regista francese. Isabelle Huppert meravigliosa.

 


 

Il grande sogno di Michele Placido

 

Chimy: Poche parole per un’altra debacle italiana in concorso. Nel film c’è pochissima storia pubblica e tanta (troppa) privata.

Placido si sofferma a trattare le vite (neanche troppo interessanti) dei tre protagonisti, senza sviluppare alcuna riflessione sul ’68.

Come in Baarìa, il film non è girato male ma è decisamente superficiale anche se Placido non ha le ambizioni del film di Tornatore.

Più che fastidioso è abbastanza inutile.

 

Para: storicamente approssimativo, e con soliti risvolti drammatici e i soliti triangoli amorosi che sono ormai cliché del cinema italiano, il film di Placido è assolutamente inutile ed insignificante. La regia è senza infamia né lode per quasi tutto il film, tranne che nelle sequenze di massa, veramente pessime.

Fa anche il verso, forse, a Pasolini, inserendo un poliziotto che fa il suo dovere in mezzo a dei disgraziati sessantottini che sono solo figli di borghesi sfascia famiglie e con la voglia di fare casino.

 

 


Survival of the Dead di George A.Romero

 

Chimy: Film altamente criticato da più parti, che invece a mio parere è pieno di motivi d’interesse e che non sfigura affatto all’interno del ciclo romeriano sui morti viventi.

La prima parte del film fa pensare al peggio: scontri continui coi morti viventi, fughe, nessuna riflessione contenutistica alle quali Romero ci ha sempre abituato.

Nella seconda però il film sale (e tantissimo) e non si ferma più.

Romero ragiona in particolare su due elementi: il primo è sulla divisione in due fazioni (politiche?) opposte per le quali ogni essere umano deve scegliere se entrare nell’una o nell’altra. Le idee diverse dei due clan (nel film) sono legate proprio ai morti viventi: la prima fazione vorrebbe cercare di farli sopravvivere (così da tenere in vita i morti, che prima erano persone care, amici o parenti) cercando di insegnarli a mangiare carne animale; la seconda vuole unicamente la distruzione degli stessi.

La seconda riflessione (che vorrei confermare ad una seconda visione) è invece meta-cinematografica: dopo aver “reso pubblici” i morti viventi, mettendoli in rete con Diary of the Dead (e il suo film nel film), dati così in pasto al sistema mediatico-televisivo mondiale che è arrivato ad ingoiarli, Romero ragiona allora su come far sopravvivere l’immagine, l’icona, dei morti viventi. La strada proposta dal regista è l’unica possibile: un ritorno alle origini, ai b-movie anni ’60 e ’70 (dopo la diffusione mediatica, la sopravvivenza passa dalla “nicchia”) e da questo deriva anche la forma “povera” che il film prende (almeno) in apparenza.

Oltre a questo insieme di stratificazioni, vi sono delle sequenze “da pelle d’oca”, fra le quali svetta un immagine finale che entra di diritto nella storia del cinema di genere.

Ne riparleremo meglio dopo una seconda visione che spero avvenga il prima possibile; in assoluto è l’opera della Mostra sulla quale ho più voglia di ri-mettere gli occhi.

In pochi saranno d’accordo, ma Survival of the Dead (pur con tutti i suoi difetti) è ancora un film romeriano profondissimo e (forse) molto importante.

 

Para: condivido tutto quanto detto dal buon Chimy. Romero aggiunge un tassello al suo percorso evolutivo, ma anche al percorso evolutivo della storia dell’immagine. C’è politica, società e cinema, come dalla migliore tradizione romeriana. Chi l’ha criticato lo riguardi più approfonditamente. È un b-movie con criterio e teoria.

 


 

Capitalism: a True Story di Michael Moore

 

Para: il solito bel film di Moore ma anche il solito mediocre documentario di Moore. Il regista americano riesce come al solito a confezionare un film convincente, da utilizzare sempre come partenza di approfondimento. Moore screma, selezione e manipola per servire il suo (giusto) messaggio, questa volta una critica ad alcune tattiche finanziarie di banche e grandi industrie. Onnipresente la strumentalizzazione dell’11 settembre, onnipresenti le musiche empatiche nei momenti più intimi e drammatici, ma onnipresente anche, e fortunatamente, lo sguardo ironico e provocatorio, e la sapienza nel scegliere e montare materiali di repertorio.

 


 

South of the Border di Oliver Stone

 

Para: Oliver Stone continua la strada iniziata con Persona non grata, realizzando un altro documentario intervista. Questa volta si concentra sui presidenti/dittatori comunisti degli stati sudamericani, sulla manipolazione mediatica statunitense sulla loro immagine  e sulla loro reale opera e contributo politico al proprio paese. Decisamente di parte (dei sudamericani), ma molto coraggioso ed incisivo. In sala era presente, a sorpresa, Hugo Chavez, vero protagonista del film e della rivoluzione politica del Sudamerica.

 


 

Napoli Napoli Napoli di Abel Ferrara

 

Para: un film piacevole ma che non dice nulla di nuova e in nessun nuovo modo. Ferrara si concentra sui napoletani e non su Napoli, inserisce una sottotrama fiction inutile ma non fastidiosa, ma perde troppo tempo ad intervistare e poco a mostrare. Forse è tra gli eccessi, in bellezza e bruttezza, dell’immagine di Napoli come città che avrebbe dovuto cercare.

Mostra di Venezia 2009-Primo resoconto

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Purtroppo, causa impegni, la nostra Mostra è finita al settimo giorno, e non al decimo, giorno della premiazione. Mancheranno per questo i film presentati nel corso del finale del festival… ma ecco il primo di due brevi resoconti (con le classiche mini-recensioni) dei film più importanti visti alla Mostra di Venezia 2009.

 

 

Baarìa di Giuseppe Tornatore

 

Chimy: Cerca di volare alto Tornatore, come fa uno dei bambini protagonisti all’inizio del film, ma vola troppo in alto e una volta in discesa la caduta si fa molto dolorosa. Tornatore vorrebbe raccontare la storia novecentesca della Sicilia con Baarìa, ma non fa altro che raccontare il privato di una famiglia mentre gli eventi (o ancor meglio i cambiamenti) storici rimangono solo in superficie: cornice abbozzata e maldestra che voleva essere invece protagonista-riflessione dell’opera. Oltre a questo i problemi risiedono in una forma che, seppur apprezzabile per lunga parte dell’opera, crolla in eccessi retorici e zuccherosi davvero insopportabili, che trovano il proprio apice in un finale davvero da buttare. Prima di due grandi delusioni del concorso veneziano.

 

 

Rec 2 di Jaume Balaguerò e Paco Plaza

 

Chimy: Poche parole per un film pessimo, girato come il precedente e che risulta ormai anacronistico. Alle solite videocamere a mano (che tanto senso avevano nel primo capitolo ma non più in questo caso) si aggiunge una sceneggiatura completamente sbandata e frettolosa dove a farla da padrone sono assurde spiegazioni pseudo-religiose che fanno il “verso” a L’esorcista. Molto più noioso che spaventoso.

 

 

Life During Wartime di Todd Solondz

 

Chimy: Cinque anni dopo il geniale Palindromi, Todd Solondz torna a Venezia e fa nuovamente il botto. Life During Wartime è un film davvero bello, forse bellissimo, probabilmente imperdibile (giudizi definitivi ad una futura seconda visione): un’opera che ragiona magnificamente sull’oggi, sulla contemporaneità, sulla crisi d’identità dell’umanità contemporanea che sta vivendo in tempo di guerra, e forse nemmeno se n’è accorta. Un sequel di Happiness, che trova forza e senso ulteriore proprio in relazione alla pellicola del 1998: bisogna riflettere su come sono cambiati i personaggi, i volti sono diversi, opposti, ma loro sono sempre gli stessi; con le stesse paure e con lo stesso bisogno di essere perdonati. Un cast straordinario (con attori tutti diversi da Happiness) dove gli interpreti riprendono direttamente i gesti e le pose degli attori che li hanno preceduti negli stessi ruoli. Chicca assoluta e non casuale: un poster di Io non sono qui appeso nella camera di uno dei protagonisti. Chi ha visto Palindromi capirà… Per chi scrive, a conti fatti e se mi trovassi a dover decidere con una pistola alla tempia, il film migliore visto a Venezia 2009.

 

Para: Un film volutamente di plastica e grottesco, un film spiazzante e necessario. Solondz non delude e porta sullo schermo un film che oltre ad essere un film per chi ha visto Happiness (assolutamente indispensabile averlo visto, in quanto vero e proprio seguito), è anche un film per chiunque abbia il coraggio di guardare dentro di sé. Con Life During Wartime (La vita in tempo di guerra, perché la società contemporanea è come un campo di battaglia) ognuno di noi deve arrivare ad ammettere, definitivamente, quanto Solondz sia un regista dell’oggi, cantore della profonda essenza dell’uomo contemporaneo. Arriva ad essere filosofico e didattico nell’intenso discorso sul forgive/forgiveness. Uno dei migliori film del festival.

 

 

The Road di John Hillcoat

 

Chimy: Oltre e più di Baarìa la grande delusione della Mostra. Il film è tratto dal più grande romanzo del nuovo millennio e c’era molto fiducia che a trasportarlo sul grande schermo fosse John Hillcoat, regista dell’ottimo La proposta. The Road è un film che gira molto a vuoto, sa di già visto e perde molte delle riflessioni possibili sul rapporto fra un padre e un figlio in un mondo ormai morto. Si arriva a banalizzare inconsciamente il concetto del “fuoco” del romanzo di Cormac McCarthy; e questo è un errore imperdonabile. Trasporre sul grande schermo La strada non era facile; ma se McCarthy descriveva quel mondo devastato con la sua scrittura straordinaria, Hillcoat non riesce mai a “scrivere” cinema con la macchina da presa e si limita unicamente a seguire il percorso dei due protagonisti. Purtroppo davvero inconsistente.

 

Para: The Road parte bene, con una prima parte realmente coinvolgente, angosciante e d’impatto, per poi perdersi nella ripetizione e nella mancanza di un obiettivo. Troppo vago e banalizzato il profondo messaggio di cui vorrebbe farsi portatore. Per Hillcoat una vera e propria occasione sprecata. Si intravedono gli intenti, ma non basta.

 

 

Il cattivo tenente-Ultima chiamata New Orleans di Werner Herzog

 

Chimy: Partiamo dicendo che il film originale di Ferrara non c’entra nulla, Herzog se ne distacca per fare un film in cui però c’è comunque poco del suo spirito autoriale e poco anche dello spirito dei suoi personaggi storici. Il cattivo tenente-Ultima chiamata New Orleans è un divertissement che Herzog si sarà certamente divertito a girare, che fa una specie di parodia del genere poliziesco nella seconda parte ma non nella prima che invece è molto seria (scelta di cambi di registri abbastanza discutibile). Il film è comunque guardabile anche se molto semplice e di poco conto. A conti fatti sembra un’operazione, per quanto particolare, abbastanza commerciale che avrà permesso a Herzog di realizzare un progetto ben più personale (sempre negli USA) che è il film sorpresa della Mostra, My Son, My Son, What Have Ye Done. Di questo si parlerà nel secondo resoconto.

 

Para: Herzog da Ferrara prende soltanto il cattivo tenente, nel vero senso della parola. Nessun riferimento al film culto di Ferrara, se non, appunto, le particolari propensioni verso sesso e droga del protagonista. Un film che dimostra la genialità del regista tedesco, che si diverte e ci diverte, prendendo tutti per i fondelli, da Cage fino a tutti gli spettatori. Non una vera e propria parodia ma piuttosto una critica divertente e divertita sul genere poliziesco, cinematografico e televisivo. Contiene chicche di rara efficacia e genialità, Cage è per una volta nella parte ed è forse la cosa migliore che Herzog potesse fare per fare cassa senza svendersi.

 

 

Tetsuo-The Bullet Man di Shinya Tsukamoto

 

Chimy: Facilmente attaccabile dalla critica dei quotidiani (non era da mettere in concorso) il nuovo Tetsuo è un film che ha invece diversi motivi d’interesse. Tsukamoto scende molto poco (la mutazione eccessivamente spiegata) a compromessi con le case di produzione americane e prosegue comunque a fare il suo cinema, con la sua regia (molto buona anche qui), il suo montaggio e il suo ritmo frenetico. La sceneggiatura è discreta, il film non rimarrà forse nella memoria dei fan del regista, ma dato che i produttori americani avevano comunque deciso di fare un remake di Tetsuo è molto meglio che l’abbia fatto Tsukamoto (e in questo modo) che qualsiasi altro regista.

 

Para: Tsukamoto realizza un film fatto per il suo pubblico, con richiami continui ai suoi due Tetsuo e reminescenze da altre sue pellicole. Scende ai giusti compromessi per accontentare i suoi fan ma per rendere appetibile il prodotto anche ai neofiti del suo cinema. Se potrebbe peccare dal punto di vista narrativo, a causa di spiegazioni e di un plot non troppo complesso ed originale, non pecca dal punto di vista registico: interessante la componente più horror e di tensione, e ottime, ovviamente,  le soluzioni di montaggio, frenetiche e in puro stile Tsukamoto.