Tra commedie e thriller all’americana, la vera perla del weekend è «Offside» del dissidente iraniano Jafar Panahi

Articolo già pubblicato su IlSole24Ore

Sei anni di carcere, con il divieto di realizzare film e di lasciare l’Iran per i prossimi venti: questa la condanna che il regime di Teheran ha inflitto a Jafar Panahi lo scorso 20 dicembre.
Il regista, vincitore del Leone d’Oro alla Mostra di Venezia del 2000 per il film «Il cerchio», era stato arrestato il 2 marzo 2010 con l’accusa di aver ripreso (senza permesso) alcune scene delle manifestazioni contro il governo di Ahmadinejād,del quale Panahi è da diversi anni uno degli oppositori più rilevanti.
Il mondo del cinema da quel momento si è costantemente mosso in difesa dell’autore (oggi in libertà dietro cauzione, in attesa del processo d’appello), attraverso messaggi mediatici (dalle campagne su facebook alle lacrime di Juliette Binoche, durante lo scorso Festival di Cannes, alla notizia che Panahi aveva iniziato lo sciopero della fame) e iniziative di vario tipo: ultima quella del Festival di Berlino che, nonostante il regista non potesse presentarsi in Germania, l’ha nominato fra i giurati della manifestazione.
Anche l’Italia (o, meglio, la casa di distribuzione Bolero Film) ha deciso di contribuire alla causa (e alla diffusione della poetica di Panahi) facendo arrivare nelle nostre sale «Offside», l’ultima pellicola dell’autore iraniano, a cinque anni di distanza dalla sua trionfale presentazione al Festival di Berlino, dove il regista vinse l’Orso d’Argento.
Al centro del film vi è, naturalmente, una feroce critica contro l’arretratezza del sistema dello stato mediorientale. Siamo a Teheran, nel giorno della partita decisiva per la qualificazione dell’Iran ai mondiali di calcio di Germania 2006, e gli spettatori si avviano verso lo stadio: tra questi c’è anche una ragazza, vestita da uomo, che cerca di mimetizzarsi fra la folla per nascondere il suo sesso, dato che le donne iraniane non sono ammesse alle partite di calcio per ragioni di buoncostume. Riesce a raggiungere i cancelli, ma si fa prendere dal panico e viene scoperta: le guardie la porteranno allora in una sorta di recinto, situato all’ultimo anello dello stadio, dove troverà altre ragazze che hanno tentato la sua stessa sorte e sono in attesa di essere prelevate dalla polizia.
Oltre a essere una pellicola di grande impegno politico, che racconta una delle battaglie per i propri diritti che le donne iraniane devono combattere giorno per giorno, «Offside» è anche un film estremamente piacevole, privo di quell’eccessiva lentezza (spesso fine a se stessa) che aveva contraddistinto il precedente lavoro di Panahi, «Oro rosso» del 2003.
Il regista dimostra in «Offside» tutto il suo talento cinematografico, realizzando una storia girata (quasi) in tempo reale che unisce modalità documentaristiche alle teorie di Cesare Zavattini su come la macchina da presa debba pedinare i personaggi.
La storica partita di calcio non si vede praticamente mai, si rimane sempre “offside” (termine che indica il fuorigioco) ad ascoltare le conversazioni fra le ragazze e i militari, tese a rivelare la situazione sociale e i rapporti uomo-donna nell’Iran contemporaneo.
Soltanto nella conclusione ci sarà spazio per la speranza di un futuro migliore: la nazionale di calcio, vincendo la partita, permette una riconciliazione comunitaria che solo lo sport, al giorno d’oggi, sembra poter realizzare. Nei festeggiamenti finali diventa infatti evidente la messa in scena del sogno di un Iran nuovo e diverso, per il quale Panahi ha sempre combattuto usando come arma la sua macchina da presa.
 
Gli altri titoli in uscita in questo secondo venerdì di aprile sono decisamente meno impegnati  (salvo «Ju Tarramutu» di Paolo Pisanelli, uscito mercoledì a due anni di distanza dal terremoto dell’Aquila), a partire dall’atteso «Lo stravagante mondo di Greenberg» di Noah Baumbach.
Il protagonista, interpretato da Ben Stiller e citato già nel titolo, è Roger Greenberg, un single sulla quarantina appena dimesso da un ospedale psichiatrico, che torna a Los Angeles (dopo aver vissuto molti anni a New York) per non lasciare incustodita la villa di suo fratello, partito con la famiglia per una vacanza in Vietnam.
Nella metropoli californiana cercherà di riallacciare i contatti con diverse figure del suo passato (dal vecchio amico Ivan all’ex-fidanzata Beth), ma il suo interesse si sposterà presto verso una nuova conoscenza: Florence, la giovane assistente personale di suo fratello.
Dopo il notevole «Il calamaro e la balena» del 2005, il regista Noah Baumbach sembra essersi decisamente perso realizzando, dopo il pessimo «Il matrimonio di mia sorella» del 2007, un altro prodotto ben poco originale, privo (a parte in rare sequenze) di quegli sprazzi registici che aveva mostrato nella sua pellicola più nota.
A differenza delle belle sceneggiature che scrive per le regie Wes Anderson (da «Le avventure acquatiche di Steve Zissou» a «Fantastic Mr.Fox»), ne «Lo stravagante mondo di Greenberg» la scrittura di Baumbach è piatta, priva di svolte narrative, tesa a raccontare unicamente il classico “vuoto esistenziale”  dei personaggi che mette in scena: un argomento sempre più abusato da un certo tipo di cinema indipendente americano che, come lo stesso regista, sembra aver perso quella creatività che aveva in passato.
A rendere ancor meno riuscita questa pellicola c’è un Ben Stiller decisamente sottotono, che si limita a ricreare tutti i cliché espressivi per interpretare un ex paziente di una clinica psichiatrica. Decisamente meglio di lui il cast di contorno: dal sottovalutato Rhys Ifans all’intensa Greta Gerwig, che (nei panni di Florence) si dimostra una delle nuove attrici del cinema a stelle e strisce da tenere in grande considerazione.
 
Secondo atteso film americano fra le uscite di questo weekend è «The Next Three Days», diretto da Paul Haggis con protagonista Russell Crowe.
L’attore neozelandese interpreta John Brennan, un docente di Pittsburgh che vede la moglie arrestata per un omicidio di cui si proclama innocente.
Dopo tre anni di inutili battaglie legali, con un figlio piccolo da crescere, John penserà a un piano perfetto per far evadere la moglie dal carcere e tornare a vivere liberamente insieme a lei. 
Remake del francese «Pour elle» di Fred Cavayé (film del 2008 con Vincent Lindon e Diane Kruger, mai uscito nelle sale italiane), «The Next Three Days» è un tipico thriller americano contemporaneo, con i classici pregi (pochi) e difetti (molti) del caso.
Le svolte narrative risultano poco credibili a partire dalla metamorfosi del protagonista, da timido insegnante a giustiziere senza scrupoli, fino a una delirante mezz’ora finale in cui non c’è spazio per alcuna veridicità.
Dopo i sopravvalutati «Crash» del 2004 e «Nella valle di Elah» del 2007, Paul Haggis si conferma regista di scarso spessore, nettamente in difficoltà a far empatizzare il pubblico con le sue storie (persino in un film a tratti, comunque, coinvolgente come questo) senza ricorrere a effetti stilistici pacchiani e a scelte musicali decisamente retoriche.
Proprio come Noah Baumbach, anche lui ha fatto di meglio quando si è limitato a scrivere sceneggiature per altri registi: in particolare per Clint Eastwood con «Million Dollar Baby» e «Flags of Our Fathers».
Una conclusiva nota di merito va però agli attori: da un bravo Russell Crowe, in una delle performance più convincenti della sua filmografia recente, a un sempre efficace Liam Neeson, che regala un riuscito cameo nei panni di un esperto di evasioni. 

Chimy

Voto Offside: 3/4

Voto Lo stravagante mondo di Greenberg: 2/4

Voto The Next Three Days: 2/4

Nella valle di Elah: un altro Oscar per Haggis?

INIZIO: Un patriota americano, Hank Deerfield, vede una bandiera degli Stati Uniti appesa al contrario e la raddrizza.

PLOT: Il figlio di quest’uomo, tornato dall’Iraq da una settimana, è misteriosamente scomparso. Il padre allora va sulle sue tracce, scopre che il figlio è morto ed il suo cadavere è stato fatto brutalmente a pezzi. Grazie all’aiuto dell’ispettore Emily Sanders inizia ad indagare su come sia avvenuta la morte del figlio. Quello che scopre fa vacillare le sue convinzioni ed il suo patriottismo.

FINE: L’ex-patriota tira giù la bandiera, che aveva raddrizzato all’inizio, e la rimette sù capovolta.

 

Questo potrebbe essere (più o meno) il bel soggetto del nuovo film di Paul Haggis, intitolato “Nella valle di Elah”.

L’idea di base è davvero molto interessante e dovrebbe dare forma ad un ottimo lavoro.

Purtroppo non è così….

Per fare un buon film ci vuole, oltre all’idea, una sceneggiatura che mantenga le premesse del soggetto e, soprattutto, un regista che sappia fare bene il suo lavoro: quello che Paul Haggis (ancora) non è.

Dopo il notevole inizio, in cui si gettano le basi della trama, il film inizia già ad essere stanco di sè stesso dopo un quarto d’ora.

La parte centrale (lunga circa 80 minuti) è noiosissima e ridondante: diverse sequenze sembrano venir prolungate inutilmente soltanto per portare il film alla durata di due ore.

Ciò che, però, colpisce negativamente (più della noia) in questa lunga parte, è il patetismo (nel significato più negativo del termine) di alcune scene del film.

Hank racconta al figlio di Emily quello che è avvenuto “nella valle di Elah” nei tempi antichi: la sfida tra il piccolo Davide (naturalmente il bambino si chiama David) e il gigante Goliah, conclusa con la vittoria del primo. Oltre ad essere una metafora di una facilità quasi squallida (all’interno dell’economia del film), vediamo che all’inizio il piccolo David non è interessato, poi magicamente Emily racconta che si è “identificato” con il personaggio biblico, che ha voluto comprare una fionda e che ogni sera (come vediamo anche in un momento orrendo nel finale) vuole farsi raccontare quella storia.

Prima di parlare degli ultimi cinque minuti del film, devo sottolineare ancora una sequenza che si distingue per mancanza di stile: Hank che insegue in macchina un messicano che si crede essere stato coinvolto nella morte di suo figlio. E’ difficile girare un inseguimento peggio di come fa Paul Haggis: ogni singola inquadratura (e gesto) sà di falso e (malamente) costruito.

Arrivo finalmente al finale: Haggis, per la sua regia, ha la capacità di distruggere i suoi film grazie alle pessime (retoriche, buoniste, commerciali) conclusioni che propone.

“Crash” è un buon film per un’ora e mezza, gli ultimi trenta minuti (dove quelli che prima si odiavano si vogliono tutti bene e dove la sua critica sociale precedente crolla completamente) lo fanno diventare mediocre.  “Nella valle di Elah” è un film discreto (per le intenzioni, non per la messa in scena), ma il modo in cui Haggis gira il finale (ultimi cinque minuti) lo fa diventare (per lunghi tratti) davvero irritante.

Tutto (nel finale) è fatto per far arrivare allo spettatore una lacrima facile con espedienti stilistici falsi e retorici.

Hank va a chiedere scusa al messicano che inseguiva, Emily racconta la storia di Davide a David, il figlio di Hank (quand’era in Iraq) ha mandato una foto a suo padre, Hank issa la bandiera al contrario.

A dirlo così sembra tutto a posto, ciò che è invece intollerabile è il modo in cui Haggis mostra queste azioni: un’enfasi innaturale sui gesti, sugli sguardi, sui sentimenti; musiche (per un pubblico abituato a filmetti della domenica) toccanti, tra cui un’insopportabile e commercialissima canzone finale (mi ricorda qualche film che ha vinto l’Oscar un paio di anni fa…mah chissà qual’era…) mentre Hank fa l’unico gesto per cui il film è stato scritto.

Tommy Lee Jones (nella parte di Hank), con un’interpretazione profonda e struggente, è bravissimo (uno dei meriti del film, oltre all’idea di base), Charlize Theron (Emily) invece non lo è per niente: poco ispirata e poco credibile.

Talmente retorico, furbo, facile e "piacione" che potrebbe far vincere ad Haggis un altro Oscar per il miglior film.

Chimy

Voto Chimy: 2 / 4

Mostra di Venezia-giorno 3: ancora delusioni e tanta incazzatura…

Sicuramente il giorno più brutto della Mostra: 3 film deludenti in concorso e un grosso scandalo…

Partiamo dal film (forse) meno-peggio: "Gli amori di Astrea e Celadon" di Eric Rohmer.
Purtroppo molto meno interessante di quanto mi aspettassi.
Il grande regista francese (assente per problemi di salute) ha girato un’opera totalmente inseribile all’interno della sua filmografia e del suo modo di fare cinema: grande attenzione ai dialoghi, regia molto semplice, forte letterarietà.
Il film è tratto da un libro del 1600 che parla delle difficoltà amorose di due giovani della Gallia.
Rohmer segue fedelmente il testo originale, ma questo (vista l’epoca in cui è stato scritto il racconto) lo rende troppo pedante e onestamente superato.
La trama prende risvolti a volte troppo banali, altre volte un pò fuori-luogo (vedi il finale).
Resta, comunque, un film discreto vista l’onestà complessiva dell’opera: un film semplice, con atmosfere quasi favolistiche che ci rimandano al tempo dei druidi e ci allontanano dall’arroganza che contraddistingue altri autori del concorso (tra cui quelli dei prossimi due film sotto).

Decisamente deludente è anche Paul Haggis con "In the Valley of Elah".
Il film parte bene raccontando la storia di un uomo (T.L.Jones) che cerca di avere notizie del figlio, soldato americano in Iraq.
Discreto è anche il finale con il quale il regista critica gli Stati Uniti, facendo issare al protagonista la bandiera americana al contrario.
I grossi problemi sono in una lunga, prolissa e noiosissima parte centrale che fa perdere l’interesse che il film aveva generato nel pubblico all’inizio.
La regia di Haggis (che, personalmente, ho poco sopportato anche in "Crash") è spesso falsa e piena di retorica: cerca di fare contenti un pò tutti con strizzatine d’occhio e una parte finale che cerca di commuovere il pubblico mediante i procedimenti più commerciali possibili (ad es.canzoni struggenti). Mi stupisco sempre che sia lo sceneggiatore di uno dei miei registi preferiti.
Il film, che potrebbe anche vincere il Leone per la tematica che affronta (la forma viene spesso messa in secondo piano nei grossi festival..), ha però una grande interpretazione in Tommy Lee Jones che punta forte alla Coppa Volpi insidiando Tony Leung e Michael Caine.

Andiamo invece a quello che probabilmente è il film peggiore visto fin’ora in concorso: "Nessuna qualità agli eroi" di Paolo Franchi.
Un’opera pretestuosa e arrogante come se ne vedono solo in Italia.
La trama, decisamente complessa, sembra scritta soltanto per cercare in tutti i modi di fare considerare Franchi un autore: scene drammatiche e pesanti per tutta la durata di questo brutto film.
Può essere eletto a simbolo del cinema italiano di oggi: un regista (Franchi) esordisce con un film ("La spettatrice"), ha successo, pensa di essere diventato Fellini o Rossellini (o, forse, Antonioni in questo caso) e nella sua seconda opera mostra tutto questo suo sentirsi grande e arrivato, facendo invece dei lavori insopportabili.
Arroganza simile a quella di Saverio Costanzo per "In memoria di me".

Infine lo scandalo di cui vi parlavo: il film di Woody Allen "Cassandra’s Dream" non potrò vederlo (e insieme a me gli altri accrediti).
E’ stato comunicato oggi che la casa di distribuzione del film, controllata da quel "genio" di De Laurentis, ha deciso di proiettare il film soltanto per la stampa giornaliera e per il pubblico pagante (che deve spendere 40euro, se riesce a trovare il biglietto), togliendo 3 delle 5 proiezioni previste.
Per il momento sono sconosciute le cause. Spero che non sia la volontà di guadagnare qualche soldo in più, facendo pagare il biglietto alle migliaia di accrediti che l’hanno perso. Sarebbe molto triste.
Personalmente, comunque, ho deciso di non andarlo a vedere in sala, ma di scaricarlo da Internet, per non dare neanche 6 euro al "grande genio".

Incazzatamente vi saluto…

Chimy