Lezione ventuno e The Burning Plain: quando lo scrittore esordisce alla regia

E’ la prima (e forse l’ultima) volta che su cineroom viene fatto un unico post per due film.
Questa scelta non è fatta (soltanto) per pigrizia, ma perchè ci sembra coerente trattare contemporaneamente queste due pellicole che possiedono entrambe gli stessi motivi di discussione: elemento più unico che raro per due film usciti a breve distanza l’uno dall’altro.
Lezione ventuno è l’esordio dietro la mdp del celebre scrittore Alessandro Baricco. The Burning Plain è l’esordio dietro la mdp del celebre sceneggiatore Guillermo Arriaga.
Entrambi hanno sempre considerato la loro arte come una forma estremamente speciale di scrittura.
Baricco si mostra spesso per essere una persona molto amante di sé stessa e della sua capacità scrittoria; Arriaga ha più volte dichiarato che gli alti risultati dei film diretti da Inarritu siano sostanzialmente merito delle sue sceneggiature e che il regista andava a chiedere a lui come girare le scene (dichiarazione che si collega al "divorzio artistico" fra i due messicani).
Insomma, la modestia non è proprio di casa per i due protagonisti del doppio post e questo si riscontra (e tanto) nei loro film.
Lezione ventuno e The Burning Plain sono due film molto supponenti per motivi diversi l’uno dall’altro, seppur si possa collegare quest’arroganza registica al "passato" artistico dei due.
Partiamo da Lezione ventuno: il film di Baricco ha un incipit interessantissimo. Parla del celebre professore (interpretato da un gradevole John Hurt) che durante le sue lezioni smontava i grandi capolavori delle varie arti. Nella sua camera vediamo i suoi bersagli: la Venere di Botticelli per la pittura, 2001: Odissea nello spazio (se qualcuno non sa per cosa se ne vada da questo blog immediatamente… he he ^^) e per la musica la Nona di Beethoven, che sarà la protagonista della pellicola. Benissimo, partenza affascinante… siamo curiosi di andare a scoprire quali saranno le tesi del professore per portare avanti questa lezione.
L’interesse dura però circa 28 secondi, fino a quando la voce narrante termina di parlare e inizia il film vero e proprio.
Subito andiamo a capire che il senso del film non è dimostrare se la Nona è un capolavoro o meno, ma il senso della pellicola è unicamente per Baricco quello di dimostrare a sé stesso di essere capace di girare un film e che il cinema per un grande scrittore come lui è una bazzecola da fare ogni 3-4 mesi se solo volesse. E allora assistiamo ad un minestrone impazzito in cui si vanno a mescolare fotografie, flashback, flashforward, interviste agli alunni del professore, interviste a dei pazzi scatenati, interviste ad esseri spocchiosi (ecco, l’autobiografismo del regista tema centrale) sperduti in un limbo che sembra simboleggiare il vuoto nel cervello di Baricco quando prende una macchina da presa in mano.
La confusione dell’autore è talmente forte che rimane addirittura un dubbio di fondo: ma con questo film ha voluto dimostrare che la Nona è sopravvalutata? Oppure ha voluto dimostrare che le critiche fatte alla Nona dal professore sono vacue e stupide e che il capolavoro di Beethoven è inattacabile?
La confusione è talmente tanta che ha portato Mariarosa Mancuso, in un momento rarissimo di brillantezza formidabile, a scrivere la frase critica dell’anno 2008, che parlando di ciò che accade dopo l’incipit scrive: "poi arriva un delirio su vecchiaia e bellezza che ammazza chiunque non abbia studiato alla scuola Holden". Applausi…
Veniamo al tasto più positivo (?) del post: The Burning Plain di Arriaga, uno dei film più attesi (almeno da me) della scorsa Mostra di Venezia.
Qual è il grosso problema di quest’opera meno che mediocre? No, non è la regia (anche se non è certo positiva)… è la sceneggiatura? ebbene sì.
Arriaga vuole dimostrare al mondo, a sé stesso e a Inarritu che non è capace soltanto di scrivere storie alternate nello stesso tempo, ma storie (o la stessa storia, meglio) parallele in temporalità differenti.
Questa scelta ci allontana dal fascino (e sto parlando solo della sceneggiatura) di Amores Perros o di 21 grammi (la sceneggiatura di Babel doveva essere ingoiata da Inarritu quando gliel’ha presentata) e ci presenta una storia completamente inutile e già vista che fin dall’inizio non riesce ad empatizzare con il pubblico.
Sulla regia e sulle atmosfere Arriaga sembra più preoccuparsi a tenersi lontano dallo stile di Inarritu, piuttosto che pensare di dare un ritmo migliore alla vicenda.
Peccato perchè questo film ha anche diversi pregi nelle buone interpretazioni, nella fotografia, ma purtroppo tutto va a perdersi davvero per una sceneggiatura che non è né carne né pesce e che non vuole mai rischiare nulla in nessun momento del film.
Diventa poi plausibile fare, per concludere, una riflessione anche sul fallimento di due esperti scrittori (come categoria globale) che passano dietro la macchina da presa e si ritrovano completamente sperduti in un luogo che non è il loro. Forse sarebbe il caso che chi scrive su carta non debba pensare preconcettamente che sia la stessa cosa che scrivere con la macchina da presa.
Dov’è finito l’insegnamento del grande Alexandre Astruc? Che i concetti chiave della camera-stylo siano andati perduti?

Chimy

Voto Chimy a Lezione ventuno: 1,5/4
Voto Para a Lezione ventuno: 1,5/4

Voto Chimy a The Burning Plain: 2/4
Voto Para a The Burning Plain: 1,5/4

Charlie Bartlett: non ci interessa…

Visto (con fatica) alla scorsa edizione del Torino Film Festival, Charlie Bartlett è stato ampiamente applaudito al termine della sua proiezione, a dimostrazione che nei festival il pubblico applaude qualsiasi tipo di film e di qualsiasi valore.
Charlie Bartlett è un ricco studente che fatica a farsi accettare da presidi e compagni delle (tante) scuole che ha frequentato.
Questo fino a quando non gli viene un’idea "geniale": ascoltare i problemi dei ragazzi (nel bagno della scuola) e offrirgli le ricette di qualsiasi tipo di medicinale per tentare di risolverli.
Interessante il lavoro di John Poll, il regista, che sa benissimo di aver realizzato una banale teen comedy, ma cerca di farcela vedere come se fosse qualcosa di più.
Si potrebbe credere che il film faccia una riflessione sui problemi esistenziali che affliggono una generazione; si potrebbe pensare che venga sviluppata la capacità di giungere a fare del male pur di farsi accettare dalla società; si potrebbe addirittura vedere (misericordia però… spero proprio che questo non l’abbiate visto) una base contenutistica legata al concetto che la ricchezza non vale nulla, se non si hanno degli amici (!).
Si potrebbe… ma si dovrebbe non cascarci su queste "mascherate" riflessioni gettate a casaccio nella mischia del film per "falsificare" il giudizio spettatoriale.
A tratti è anche imbarazzante; e imbarazzato è certamente Robert Downey Jr. che, più che recitare, sembra chiedersi come abbia fatto a finire in una simile stupidata.
Alcune recensioni (non faccio nomi per galanteria… cmq è una sola) hanno tirato fuori Wes Anderson, Noah Baumbach, Gus van Sant e, più importante di tutti, Todd Solondz. Non scherziamo, please.
Insomma, nel complesso, John Poll finge di dare maggiore spessore al film; ma non è, invece, interessato minimamente a farlo sul serio.
Perchè allora dovrebbe interessare a noi?

Chimy

Voto Chimy: 1,5/4

Voto Para: 1,5/4

"Hitman": un videogico bellissimo, un film bruttissimo.

Perché, e ripeto perché, realizzare un film tratto da un videogioco senza utilizzare i pregi e gli spunti che ben quattro episodi videoludici hanno offerto negli anni?
E chi lo sa?
“Hitman” è un videogioco del genere stealth, in cui si impersona un sicario di una misteriosa organizzazione. “47” è il codice numerico di Tobias Ripier, l’assassino del videogame, dalla testa rasata e con un codice a barre sulla nuca. Obiettivo di ogni missione è uccidere un bersaglio indicato dall’organizzazione, e il modo più stimolante e appagante è farlo cercando di essere invisibile (stealth, appunto). Corde di pianoforte (per strangolare), siringhe avvelenate, due Silverball silenziate e travestimenti vari sono solo alcuni dei topos del gameplay.
Hitman”, su celluloide, mantiene solo punti di contatto superficiali, e quindi marginali: testa rasata, codice a barre, abbigliamento del protagonista, alcuni armamenti (non c’è la corda di pianoforte!), e la camminata di “47” (per qualche oscuro motivo nel film non ha nome, solo numero), identica alla controparte virtuale. Il resto è un’accozzaglia di situazioni tipiche dell’action movie, più altre discutibili trovate, che insieme sfornano un pessimo minestrone riscaldato 47 volte. C’è l’ispettore buono che vuole arrestare questo sicario fantasma; la bella (sì, è molto bella) donna che quasi lo seduce (in fondo è un assassino spietato, non può mica perdere tempo), e di cui si innamora; sparatorie; duelli con doppia wakizashi (una katana leggermente più corta) a dir poco imbarazzanti; unità speciali del KGB che per qualche oscuro motivo indossano un’uniforme/armatura identica a quella dei Kerberos di “Jin-Roh” (bellissimo lungometraggio animato scritto da Mamoru Oshii e diretto da Hiroyuki Okiura); battute senza senso (<<Ha dei sosia! Come Saddam Hussein!>>), e chi più ne ha più ne metta, ce n’è per tutti.
Come se non bastasse la recitazione è mediocre, la regia non offre nulla di speciale, la sceneggiatura è pietosa (tutto è confuso e senza spiegazioni logiche) e ci sono addirittura due adolescenti vestiti male che davanti al computer giocano indovinate un po’ a quale videogame.
Perché, e ripeto perché, scomodare uno dei personaggi più affascinanti di uno dei più bei videogiochi degli ultimi anni per realizzare un’oscenità del genere?
E chi lo sa?
Para
Voto Para: 1,5/4

"La Terza Madre": Mater Lacrimarum? No, Mater Mer……

Prima domanda: Dario Argento si è per caso rivisto “Suspiria” e “Inferno” prima di pensare a questo immane “La Terza Madre”?
Risposta: no, dato che la madre più malvagia è diventata Mater Lacrimarum.
Seconda domanda: Dario Argento si rende conto che sua figlia non è capace di recitare e nemmeno di doppiarsi?
Risposta: no, ma è sua figlia e non vuole che faccia i capricci e gli pesti i piedi.
Terza domanda: Dario Argento si è reso conto che la forza di “Suspiria”, e in parte di “Inferno”, era la lodevole messa in scena di scenografie ed illuminazione, condite da una musica d’effetto?
Risposta: no, dato che qui non c’è niente di tutto questo. Ma proprio niente.
“La Terza Madre” è un film che è un continuo sovrapporsi di difetti e bassezze, ogni tanto intervallate da qualche buona scena splatter e da un paio di momenti di spavento. Ma non bastano per perdonare tutte le altre scelte, sia di sceneggiatura che di regia, totalmente orribili. Soprattutto è impossibile perdonare la presenza di Asia Argento, capace di rovinare qualsiasi scena o sequenza in cui appare, e dato che è la protagonista assoluta del film fatevi voi i vostri conti. Inespressività che a volte sfocia nel ridicolo e un doppiaggio pietoso che a volte sembra pure fuori sincrono, sono la principale fonte di irritazione durante la visione della pellicola.
Nel film viene narrata la lotta di Sarah Mandy, dotata di leggeri poteri paranormali in quanto figlia di una strega bianca uccisa da Mater Sospiriorum a Friburgo (in “Suspiria”, comunque, non c’è niente che riguardi l’accaduto), contro Mater Lacrimarum, che si risveglia a causa del ritrovamento in un cimitero della tunica e dei talismani che nascondono il suo potere. La dimora della madre è una casa abbandonata con un passaggio segreto che porta alle catacombe romane, luogo dove esercita i suoi poteri, che sono quelli di indurre tutti alla pazzia e all’omicidio. Tra i personaggi si aggiunge un esorcista, un’altra strega bianca, un ispettore di polizia, un alchimista e altre macchiette del genere più o meno horror esoterico.
Il finale è qualcosa di quanto mai imbarazzante, e gli ultimi cinque secondi del film sono un vero e proprio insulto che può portarvi a due reazioni: o vi irritate a dismisura, oppure accettate tutto il film come una commedia di serie z in cui siete stati insultati per tutta la visione e dunque dovreste sentirvi degli emeriti stupidi. Esatto, entrambe le reazioni non sono positive.
Gli effetti speciali poi sono pessimi, e pessima è l’idea di usare l’effetto “fantasmino in trasparenza” per realizzare, appunto, il fantasma della madre della protagonista.
Potrei continuare ad elencare difetti ancora per molto, ve lo assicuro, ma sarebbe un’inutile perdita di tempo. E non vi consiglio nemmeno di evitare il film, andate anzi a vederlo giusto per rendervi conto di come si possa chiudere una trilogia partita in quarta trent’anni fa e finita oggi col motore scassato, le gomme scoppiate, i vetri infranti e la carrozzeria accartocciata.
Para
Voto Para: 1,5/4