"Il divo": il capolavoro che stavamo aspettando!

Paolo Sorrentino ha recentemente dichiarato che per lui il cinema è composto soprattutto da immagini e musica; concetto che lo avvicina moltissimo alle idee di registi, come René Clair e Walter Ruttmann (per non citare Charlie Chaplin), che all’inizio del sonoro rifiutavano interamente l’uso del parlato dando alla musica un ruolo preponderante.
Sorrentino ha poi spiegato che nei suoi film i dialoghi sono inseriti soltanto quando li reputa assolutamente necessari a supportare la narrazione; l’idea magnifica, e perfettamente riuscita nel capolavoro Il divo, è quella di far comunicare il più possibile le sole immagini, che sono da sempre la base più importante del Cinema.
In realtà, però, l’ultimo film del(l’ormai) grande regista italiano è un’opera incentrata sui dialoghi. Ma non nel senso convenzionale del termine…

 

 

Il dialogo audiovisivo

Michel Chion, il cui “L’audiovisione suono e immagine nel cinema” (Lindau, 2001) è un riferimento fondamentale per questo paragrafo, non sarà rimasto contento dalla visione de Il divo perchè sarà probabilmente costretto a scrivere un nuovo libro, includendovi prepotentemente l’opera sorrentiniana.

Ancora al giorno d’oggi, la maggioranza assoluta degli autori europei trascura del tutto le importanti innovazioni fatte nel sonoro negli ultimi decenni.

Bisogna oltrepassare l’oceano per trovare registi di nome che abbiano cercato di incrementare la sensorialità spettatoriale tramite il suono: Coppola, Malick e, più di tutti, David Lynch.

Paolo Sorrentino, con questo film, conferma (migliorandosi) di essere uno dei pochi in Europa a sviluppare il suo cinema dando pari importanza e dignità alla percezione visiva e a quella sonora, che si influenzano reciprocamente mediante il fenomeno del valore aggiunto (cfr. Michel Chion).

Durante la splendida scena in cui viene fotografato il settimo governo Andreotti, c’è una sospensione: la mdp si avvicina al volto del protagonista, mentre i suoni intorno sembrano gradualmente fermarsi e, insieme ad essi, sembra bloccarsi anche l’immagine sul volto immobile di Toni Servillo, come se stessimo vedendo noi stessi una delle fotografie che i giornalisti stanno scattando. Sembra quasi che l’immagine e il suono si fermino contemporaneamente; il mondo audiovisivo così si immobilizza per ascoltare con attenzione la voce interiore del protagonista.

Impossibile non citare poi la scene visive per eccellenza: i piani sequenza che Sorrentino gira maestosamente.

Uno dei più interessanti è quello alla festa di Pomicino. La mdp gira intorno alle stanze, scrutando l’ambiente che si trova dinnanzi, mentre la musica suona a ritmo furioso.

Inizialmente ci ritroviamo nella stanza più caotica: luci che sembrano seguire una velocità più sonora che visiva, ragazze che ballano sul cubo, musica altissima. La mdp cerca di passarci velocemente, non può essere qui il protagonista, deve continuare a cercare.

Lo troviamo in un’altra stanza, uguale alla precedente per musica e architettura, ma opposta per movimento e posizione dei personaggi.

Ad un certo punto la mdp sembra fermarsi per ascoltare qualche parola di Livia Danese al marito e, come per incanto, sembra (o succede davvero?) che anche la musica si abbassi per qualche secondo: una sensazione di pausa, questa volta, del movimento audiovisivo, che si ferma per qualche attimo, per poi proseguire a breve il suo sincrono movimento.

La scena, forse, più significativa di tutta la pellicola, a livello più contenutistico che formale, è però un’altra.

Giulio Andreotti, in preda ad un fortissimo stress che cerca di nascondere durante il giorno, cammina tutta la notte avanti e indietro per il corridoio di casa sua.

La mdp lo segue come può, soprattutto, mentre è al centro (luminoso) della sua “passeggiata”; agli estremi c’è invece il buio che nasconde la sua figura; nemmeno le due statue che sembrano scrutare il suo tragitto, riescono a vedere la fine del corridoio. Sentiamo soltanto i suoi passi, indizi sonori materializzanti della sua presenza, che ci fanno percepire che si trova ancora nel nostro campo visivo, è solo l’oscurità a negarcelo.

Potrebbe essere la scena simbolica di tutto il film: Sorrentino ci porta alla luce dei frammenti di Andreotti (il passaggio centrale), ma il personaggio resta comunque oscuro nel finale. Non si può cogliere definitivamente la soluzione dell’enigma che aleggia attorno al divo Giulio.

Ci fermiamo, ma si potrebbero citare molte altre sequenze, per mostrare come Sorrentino abbia dato grandissima attenzione a suono e ad immagine.

Entrambe le percezioni sono sviluppate perfettamente e il regista (caso raro per l’Europa) riesce a farle dialogare in un maestoso concerto audiovisivo come se ne sono visti davvero pochi nella storia del cinema.

Michel Chion, forse, da una parte non sarà contento dopo aver visto Il divo per i motivi detti; dall’altra però sarà certamente ammirato e soddisfatto da Sorrentino che sembra aver imparato ed applicato alla perfezione uno dei concetti cardine del teorico francese: «Non vedo la stessa cosa quando sento. Non sento la stessa cosa quando vedo».

 

 

Il dialogo con lo spettatore

«Tenetevi forte alle sedie!» si sente a circa metà pellicola: un saggio consiglio da dare agli spettatori, che potrebbero rimanere estremamente colpiti e spaesati dalla visione del film.

Il divo dialoga con il pubblico per tutta la sua durata.

Con la prima immagine vanno a sfaldarsi i dubbi che Sorrentino abbia girato un film poco personale o legato unicamente a basi contenutistiche, storiche e sociali.

Il regista ci comunica fin da subito che il film è interamente suo, e lo sarà fino alla fine.

Vediamo infatti un incipit con Andreotti che tenta un particolarissimo (e grottesco) rimedio contro l’emicrania; la stessa identica procedura, solo con un metodo diverso seppur altrettanto bizzarro, che faceva Geremia De Geremei all’inizio de L’amico di famiglia.

La voce interiore soggettiva del protagonista, che riprenderebbe la sua scrittura sul diario, sembra parlare direttamente con noi spettatori; come se il personaggio Andreotti si fidi di noi e voglia rivelarci i suoi segreti nascosti.

Ma forse è solo una nostra illusione, il vero mistero della sua vita è svelato in campo a Francesco Cossiga: l’amore per Mary Gassman, sorella del ben più celebre Vittorio.

Fondamentale sarà anche il momento del monologo di Andreotti, che si sfoga rivolgendosi alla moglie, ma parlando in realtà con noi spettatori.

Sorrentino gli costruisce intorno una scenografia di natura esplicitamente teatrale, con sipario e riflettori che puntano su di lui. Una volta che ha finito di parlare, questi si spengono: lo spettacolo del potere rivelato, per il momento, è terminato.

Altrettanto imporante è il meraviglioso piano sequenza finale, in cui prima la mdp segue Andreotti di spalle, poi ci regala un’emozionante falsa soggettiva, e infine termina sul suo primo piano: sul suo volto nel quale scorgiamo una lacrima formarsi nella pupilla destra.

Il divo Giulio aveva detto che aveva pianto solo due volte nella sua vita: quando morì De Gasperi e quando venne nominato per la prima volta sottosegretario.

La terza volta è per noi spettatori: si commuove guardandoci negli occhi. Quegli occhi che hanno appena visto, seguito e giudicato la sua storia e che ora riflettono la sua sagoma… proprio come le pupille di un gatto bianco che si trovava casualmente (?) nei corridoi del potere.

 

 

Il dialogo con la storia del cinema

Il divo è un’opera che mostra la straordinaria conoscenza di Sorrentino del mezzo cinematografico.

Il regista riesce a realizzare un’opera coraggiosissima per i contenuti e monumentale per la forma, arrivando a far dialogare (con grande stile ed equilibrio) omaggi e riferimenti alla storia del cinema con idee originali e personali.

Una delle scene di maggior impatto di tutto il film è quella dell’arrivo della “corrente andreottiana”. Una meravigliosa danza western a Montecitorio, dove Sorrentino riesce a far dialogare due dei più grandi registi del genere della storia: i suoni e il senso di attesa di Sergio Leone si vanno ad unire alla dilatazione temporale di Sam Peckinpah.

Una scena-capolavoro per la quale è necessario andare a circa 40 anni fa per trovarne di pari livello nel cinema italiano.

Omaggio o meno, Sorrentino realizza poi un magnifico montaggio della attrazioni, tecnica tipicamente Ejzensteiniana, che nell’ “autoriale” e “colto” cinema odierno non viene praticamente più usata.

Alla corsa di un cavallo al galoppo, si va a sostituire alternativamente quella di un uomo (Salvo Lima) che cerca di sfuggire alla morte.

E’ certo però che i riferimenti maggiori sono quelli al cinema anni ’70: dal forte impegno sociale che parte spesso dal grottesco di Petri, al bicchiere effervescente Scorsesiano (che a sua volta omaggiava Godard), al massacro iniziale Coppoliano, con il quale si vanno ad eliminare uno ad uno tutti i “nemici” del “boss”.

Forse però sono proprio le sequenze interamente sorrentiniane quelle più straordinarie: le angolazioni, l’uso degli specchi, la mdp che non stacca praticamente mai; non ci sono tagli (ad es.) dall’immagine riflessa di Moro nello specchio alla sua scomparsa, o dal riflesso di Andreotti in uno specchio del Vaticano all’arrivo (lontanissimo) al suo primo piano.

Impossibile non citare poi la già memorabile sequenza dello skateboard (geniale idea del regista): oggetto che parte dal Palazzo (i mandanti) e giunge al piccolo tunnel (gli esecutori) che porta all’esplosione nella quale muore Giovanni Falcone.

Il divo è un capolavoro perfetto in tutte le sue componenti: sia contenutistiche che formali.

Un magnifico bricolage musicale postmoderno, nel quale svetta la scena con la canzone più popolare e conosciuta in assoluto: il magico momento de I migliori anni della nostra vita (scelta da Sorrentino per il suo testo perfettamente aderente alla situazione mostrata).

Delle interpretazioni straordinarie che sarebbero da citare tutte: Piera degli Esposti, Fanny Ardant, Giulio Bosetti, Franco Bucci, Carlo Buccirosso… e, naturalmente, i due protagonisti.

Anna Bonaiuto, che si conferma la più grande attrice italiana che abbiamo (forse è tempo di capirlo); e, soprattutto, lui: Toni Servillo, uomo ed attore immenso, che ormai non è più semplicemente sulla scia dei Volontè, dei Mastroianni, dei Gassman…e gli altri Nostri massimi attori che raggiunge ufficialmente con questo film, che lo proietta ad essere, non solo il più grande attore italiano vivente (questo lo sapevamo già dal bellissimo Le conseguenze dell’amore), ma uno dei migliori al mondo.

Anche se naturalmente il plauso più grande va a Paolo Sorrentino (anche per una perfetta sceneggiatura, scritta da solo) che entra oggi nel clan dei maggiori registi europei viventi, e se pensiamo che non ha ancora compiuto quaranta anni… ci vengono i brividi (di gioia ed emozione naturalmente) a pensarci.

Grazie soprattutto alla sua regia (come non esaltarsi già nei primi minuti con quei movimenti di macchina tesi a “raddrizzare” le didascalie/presentazioni in rosso) perfettamente conscia delle basi linguistiche del cinema e perfettamente equilibrata nel rapporto forma-contenuto, Il divo è un capolavoro vero e proprio, fra i massimi film visti nel nuovo millennio.

Un’opera d’arte di cinema assoluto, che ci fa gridare rimanendo in silenzio.

Forse è proprio lo stesso tipo di silenzio che colpiva le persone che entravano nell’archivio andreottiano.

Una sensazione che porta Il divo ad entrare a far parte di un altro tipo di archivio: quello dei capolavori che la storia del cinema ci ha regalato.


Chimy

Voto Chimy: 4/4

PREMESSA: dato che sarebbe inutile farlo, non ripeterò una parola di quanto detto da Chimy, in quanto sottoscrivo e approvo ogni sua singola sillaba. Cercherò dunque di scrivere il poco che credo sia ancora necessario dire. In realtà non è poi così tanto poco, ma è meno di quello che ha scritto Chimy. Quindi rallegratevi, se siete arrivati fino a qui manca poco a finire. Però, se siete stanchi, fate una pausa.

 

Introduzione

Popolarità e potere, immagini e musica, Servillo e Sorrentino: i primi proiettati (sullo schermo), i secondi proiettori (di senso e valore).

Sul piano simbolico contenutistico, sul piano linguistico e sul piano diegetico “Il divo” è la perfetta comunicazione continua di due mondi indissolubili.

 

Punto di vista, punto d’ascolto

Pensare che “Il divo” sia un film in cui venga privilegiato il punto di vista di Andreotti, appare riduttivo. La realtà, infatti, è che il film alterna, in continuazione, punti di vista differenti. Questo non accade con un ordine preciso, ma si passa da sequenze con punto di vista di Andreotti, ad altre con altri punti di vista soggettivi ed altre ancora con punti di vista oggettivi. Fin qui, a ben vedere, nulla di strano. Il problema è la percezione da parte dello spettatore. Perché spesso il punto di vista rimane incerto, non facilmente identificabile.

Ad esempio, prima seduta di Andreotti di fronte alla Commissione d’inchiesta parlamentare: il punto di vista è di Andreotti, e lo si evince facilmente dalla soggettiva piena che apre la sequenza. La macchina da presa resterà sempre al servizio della soggettività di Andreotti. La seconda seduta, invece, si apre dalla parte del presidente della commissione, e di compone di una serie di zoom incrociati sulle varie risposte di Andreotti. Il flusso è spezzato, varia di angolazione, il punto di vista è, in senso figurato, quello dell’intera commissione. Andreotti, comunque, rimane al centro, anche scenografico, della sequenza.

Ne “Il divo” al centro dell’attenzione c’è sempre Andreotti, anche quando non è direttamente  il soggetto, perché, in tutti gli altri casi, lui resta comunque l’oggetto. A caricarsi di questo nella diegesi c’è Toni Servillo, a caricare di questo fuori dalla diegesi c’è Sorrentino.

Il piano sequenza finale è emblematico: si passa da una soggettiva, che scopriremo essere una semi soggettiva (una perfetta falsa soggettiva felliniana), ad un dolly che fa un punto di vista oggettivo della corte dei giudici, ad un primo piano con punto di vista soggettivo di Andreotti. Su quest’ultimo primo piano è importante ciò che udiamo: è una voce registrata (di Aldo Moro) che parla del divo Giulio.

Per quanto riguarda la parte uditiva è però necessario parlare di punto d’ascolto.

Il punto d’ascolto (una trasposizione sul piano uditivo del punto di vista), è invece sempre oggettivo. Perché il punto d’ascolto è sempre e solo quello dello stesso spettatore. Il dialogo con lo spettatore (vedi analisi Chimy) non è soltanto quello di Andreotti, ma anche quello di Sorrentino, e non solo in senso di firma autoriale, ma per il modo con cui musiche, suoni e silenzi sottolineino il dialogo visivo. Quando la carcassa dell’auto di Falcone cade in ralenti, il silenzio (che non è mai neutro) è dato dal rumore, lievissimo, delle parte meccaniche e della carrozzeria distrutta. L’esplosione è l’assordante prezzo da pagare per aver assistito al silenzio della strage.

Il punto di vista e d’ascolto, infine, impone un oggetto dello sguardo più ampio, che non interessa la diegesi ma di cui la diegesi è un simbolismo.

 

Oggetto dello sguardo

“Il divo” non è un film su Andreotti, ma IL film sull’Italia.

Seguendo un sillogismo aristotelico allora verrebbe da dire che Andreotti è l’Italia. Non in senso assoluto, ma sicuramente in senso relativo. Prendendo in esame “Il divo”, Andreotti simboleggia l’Italia nella sua complessità. E come scrisse (e disse, nel film) Scalfari, è la complessità a fare la grandezza. La grandezza dell’enigma.

L’Italia, politica, è enigmatica: macchinazioni, corruzioni, omicidi. L’Italia è, per semplificare, machiavellica.

L’Italia, umana, è enigmatica: le reazioni sono incontrollate, selvagge, impulsive, ingenue. L’Italia, rifacendoci alle parole di Andreotti, è, per questi motivi, viva.

Andreotti è machiavellico, senza ombra di dubbio, ma è vivo. Nel suo machiavellismo freddo e calcolato ha avuto reazioni e passioni incontrollate.

Andreotti è l’Italia.

L’Italia è Andreotti.

Perché l’Italia è nata democristiana e morirà democristiana.

 

L’informazione silenziosa (perché zittita)

Una piccola parentesi riguardante l’allegoria Italia tramite il divo Giulio è contenuta nel meraviglioso dialogo tra Eugenio Scalfari e Andreotti.

Scalfari elenca minuziosamente alcune delle accuse dirette ed indirette nei confronti di Andreotti, ipotizzandole, per sottinteso sapiente, delle casualità. Andreotti non risponde, perché è stato lui a salvare “La Repubblica”, nel ’91, dal tentativo di acquisizione di Silvio Berlusconi. Un favore non chiesto da Scalfari, ma che, in quanto ricevuto, dovrebbe comportare un atteggiamento servizievole.

Nel film Scalfari replica invocando la complessità, Andreotti fa altrettanto. Dopodiché la conversazione viene interrotta, Sorrentino non vuole venga aggiunto altro.

In Italia, l’informazione e il mondo politico si parlano come Scalfari e Andreotti. Cioè senza risultati concreti nelle mani del cittadino (e dello spettatore).

 

Caso vs Volontà di Dio

Due termini che designano la stessa cosa.

Due approcci differenti: uno laico, l’altro cristiano.

Scalfari parla di caso, Andreotti di volontà di Dio. Curioso parlare di volontà di Dio quando riguarda la morte di qualcuno. A ben vedere, in questo caso, l’approccio (demo)cristiano di Andreotti non appare così tanto figlio della benevolenza del Signore.

 

Scrittura

Ciò che è scritto, ne “Il divo”, è fondamentale. Sia ciò che è scritto sullo schermo che ciò che è scritto per lo schermo.

Il glossario iniziale scorre sullo schermo in un silenzio imbarazzante. Sorrentino sceglie di accompagnare le didascalie sfruttando il classico silenzio in cui cade la sala ad inizio film. In questo caso, noi spettatori, siamo costretti ad assimilare informazioni (per alcuni già note) in religioso silenzio. L’informazione in questo caso è silenziosa, ma non zittita, anzi, zittisce.

Le scritte rosse, invece, che presentano luoghi e persone e che appaiono durante tutto il film sono spaventosamente perfette. Nella loro obiettivamente frequente ed aggressiva presenza non disturbano mai.

Parlando di sceneggiatura “Il divo” lascia a bocca aperta. La sintesi raggiunta da Sorrentino è sorprendente. Il mosaico di fatti privati e pubblici che Sorrentino sceglie di portare sullo schermo è scritto e intervallato con precisione millimetrica.

Niente è inutile, nient’altro serve.

Tutto ciò che c’è è quello che basta.

Due parole vanno anche dette per Giuseppe D’Avanzo, giornalista da sempre interessato alla vita di Andreotti che ha partecipato alla sceneggiatura in qualità di consulente. C’è già chi, in Italia, critica il film per la sua presenza (considerandolo solo un anti Andreotti senza scrupoli) e per le presunte forti insinuazioni mosse contro Andreotti.

La realtà è che ne “Il divo”, nel momento in cui viene fatta una presa di posizione forte, successivamente questa viene smentita o comunque acquisisce incertezza. Ad esempio: l’incontro con Riina (l’attore è un sosia), non è girato dal punto di vista di Andreotti, ma da quello del’autista del boss, che sta confessando agli inquirenti.

Il risultato è muovere dubbi, e non dare risposte. E’ prima mostrare, poi dimostrare, poi mostrare che la dimostrazione non era sicuramente certa.

 

Paul Thomas Sorrentino

“Il divo” è per l’Italia quello che “Il Petroliere” è per il capitalismo.

Ma “Il divo” è, paradossalmente, ancor più mascherato, perché il personaggio chiave non è un “anonimo” Plainview, ma il divo Andreotti.

Tra l’altro, curiosamente, Paolo Sorrentino e Paul Thomas Anderson hanno inquietanti punti di contatto: coscritti (1970), omonimi (Paolo), hanno fatto un film sul sottomondo del denaro (“Amico di famiglia”, “Sidney”), uno sul sottomondo dello spettacolo (“L’uomo in più”, “Boogie Nights”), una non convenzionale storia d’amore (“Le conseguenze dell’amore”, “Ubriaco d’amore”), e una forte riflessione critica sul proprio paese (“Il divo”, “Il petroliere”). A Sorrentino manca solo un film corale e poi siamo apposto.

In più entrambi scrivono le proprie sceneggiature, sono attenti alle musiche e sono due registi dalla forte firma autoriale.

Sorrentino è il P.T.A. Italiano.

Per assoluto e dovuto rispetto, P.T.A. è il Sorrentino statunitense.

 

Conclusione

“Il divo” è un capolavoro.

“There will be blood”, scorrerà il sangue, era una profezia.

“Il divo”, invece, è il reiterarsi della stessa certezza: l’Italia avrà sempre un suo divo, vecchio o nuovo, perché il divo, nella sostanza, è sempre uguale, e quindi, anche l’Italia.


Para
Voto Para: 4/4

Il divo: in attesa della recensione….

Il divo l’ho già visto due volte. Mettiamo subito le cose in chiaro: per chi scrive (Chimy) si tratta di CAPOLAVORO, uno dei massimi film del nuovo millennio.
La recensione sul film, però, dovrà aspettare qualche giorno, perchè il Para è ancora privo di internet e vogliamo pubblicare una recensione doppia.
Intanto però volevo già mettere un post su questo film folgorante per iniziare a parlarne e per omaggiare Paolo Sorrentino (che oggi ho avuto l’enorme fortuna di incontrare ad una sua conferenza) che con questo film si iscrive nella categoria dei massimi registi europei viventi.

In attesa della nostra recensione, ho pensato di postare le frasi più belle lette in giro da importanti critici (con vette assolute su Variety e Movie’s Home) su questo film straordinario (che, per inciso, ha avuto un’accoglienza strepitosa per la critica, non solo italiana, ma anche francese e statunitense):

Ne Il divo il velo del mistero Andreotti non viene coscientemente squarciato del tutto, Sorrentino è bravissimo a poterlo strappare qui e là e a condurci a sbirciare quel che vi si nasconde dietro, con uno stile formale e narrativo che non ha eguali nel nostro paese – e probabilmente anche oltre.                             

                                                                                                   Federico Gironi-Cineforum

Un film politico, intenso, inventivo e arguto che diventerà una pietra miliare per gli anni a venire, Il Divo è un capolavoro del regista e sceneggiatore Paolo Sorrentino.

Jay Weissberg-Variety


– Raramente si è visto un film così feroce contro un uomo politico (…) Il Divo fa pensare alla satira di Alfred Jarry messa in scena, musica ed immagini, dal regista britannico Ken Russell.

Jean-Luc Douin-Le Monde

-Bisogna inventare un voto apposta e denominarlo "Il divo" e metterlo nella colonna di sinistra (della Connection) sopra capolavoro…

Honeyboy-Movie’s Home (Sms post-visione)


Superlativo (…) È una vergogna che questa pellicola sfrenatamente esuberante e di brillante fattura probabilmente non avrà quella distribuzione mondiale che decisamente meriterebbe.

Peter Brunette-Hollywood Reporter

Visionario, Sorrentino realizza qui un grande film, un dipinto politico e umano indimenticabile, da mettere vicino a quelli della magnifica trilogia del potere del russo Sokurov.

Delphine Valloire-Arte.tv


Il divo è il Quarto Potere italiano, niente di più niente di meno. Ci si aspetta solo che anche Giulio sul letto di morte dica il suo Rosebud. Ma Giulio non muore. Anzi. Muove impercettibilmente la testa al ritmo di Da Da Da. E non dice proprio nulla.

Lorenzo Leone-Sentieri selvaggi

-Capolavoro!

Il corriere della sera, La Repubblica, La Stampa…ed un numero esorbitante di altre critiche da tutto il mondo

 


Paolo Sorrentino torna al lavoro…

sorrentinoSono iniziate da pochi giorni le riprese de "Il divo", il nuovo film di Paolo Sorrentino (nella foto), basato sulla vita di Giulio Andreotti.
Il bravissimo regista napoletano (personalmente lo considero la grande speranza del cinema italiano) ritroverà, per questo suo quarto lungometraggio, l’attore Toni Servillo, che aveva già diretto nel suo film d’esordio "L’uomo in più" e nello splendido "Le conseguenze dell’amore".
Nel cast, oltre a Servillo che interpreterà Andreotti, ci sono (tra gli altri) Fanny Ardant, Anna Bonaiuto, Giorgio Colangeli e Piera Degli Esposti.
Ci auguriamo che, anche per questo progetto così particolare, Sorrentino riesca a farci sognare e a realizzare (ancora una volta) un film diverso da quelli che, solitamente, il cinema italiano di oggi ci propone.