Hugo Cabret: il segreto è nel meccanismo

La recensione di Chimy:

Un viaggio attraverso l’impossibile. Così si può (estremamente) sintetizzare Hugo Cabret, l’ultima opera (e già tra le più importanti della carriera) di Martin Scorsese.

Un viaggio che parte da Parigi, proprio come quello del cinema, iniziato al Grand Café des Capucines il 28 dicembre 1895, data convenzionale più che ufficiale, quando i fratelli Lumière fecero la loro prima proiezione pubblica.

Un viaggio che appare come il più personale e sentito da tanti(ssimi) anni a questa parte del regista newyorkese: eppure, chi l’avrebbe mai detto qualche mese fa vedendo un trailer retorico e ricattatorio, che pareva preannunciare una pellicola simil-fantasy per famiglie?

Per tutta la carriera a metà tra compromessi industriali e lavori sentiti, Scorsese approfitta dei 170 milioni di dollari di budget per fare qualcosa di realmente straordinario: tanto vale infatti dirlo subito, Hugo Cabret è forse il primo vero capolavoro dei secondi anni ‘ 10 della storia del cinema. Certamente contribuisce a tale eccitazione il trovarsi davanti agli occhi una tale meraviglia se non ci si poteva minimamente aspettare quello a cui si sarebbe andati incontro.

Proprio come per il giovane protagonista Hugo, ragazzino che, cercando di trovare la soluzione di un segreto paterno, arriverà a scoprire qualcosa di molto più importante. Per lui e per l’intera storia del cinema.

Adattando il romanzo omonimo di Brian Selznick, Scorsese ritrova così sé stesso: ci ricorda e ci fa (ri)scoprire al tempo stesso che è sempre lui il regista più cinefilo del panorama artistico mondiale e il più attento a far sì che il passato del grande schermo non venga dimenticato.

Forse addirittura l’unico, Scorsese, in grado di trattare la storia della sua passione, con tanta umana partecipazione e senza incappare in superflue facilonerie scolastiche: unico quantomeno tra i registi “commercialmente” più noti, visto che, esempio tra gli altri, da diversi anni il talentuosissimo canadese Guy Maddin realizza opere (spesso completamente mute e costruite con tecniche che rimandano a quelle dell’epoca) di enorme coscienza storica.

Curioso in questo senso che la sfida principale dei prossimi Oscar sia tra Hugo Cabret e The Artist, pellicola quest’ultima in grado di far abboccare facilmente per il suo furbesco involucro che, di fronte al (capo?)lavoro di Scorsese, appare soltanto una timida lezione di un supplente di storia del cinema.

Hugo Cabret non si limita infatti a essere uno dei più importanti omaggi che siano mai stati fatti a tale “materia”, ma riesce, attraverso modalità esaltanti, a far (ri?)scoprire al pubblico contemporaneo una delle figure simbolo del cinema delle origini – come sapete si parla di George Méliès – e dall’altro a catturarne l’essenza.

Scorsese tratta la materia come un pioniere, scrive una nuova pagina di storia del cinema con la stessa emotiva partecipazione di quella che metteva in scena proprio lo stesso Méliès.

Se gli anni, principalmente il primo lustro del ‘900, in cui lavorava il grande regista-prestigiatore francese sono oggi considerati quelli delle attrazioni mostrative (in opposizione alla successiva, griffithiana, integrazione narrativa) Hugo Cabret si può considerare la definitiva e ultima attrazione possibile.

Cinema spettacolare, nella sua riflessività, in grado di emozionare, commuovere e coinvolgere come raramente si è visto (da sempre) sul grande schermo.

Grande merito di questo è (anche) della stereoscopia, quasi mai così efficace, e non si può non sottolinearlo visto che questa modalità di visione ha contribuito alla creazioni dei due titoli degli ultimi anni più “futuristicamente” memorabili.

Il 3d migliore di sempre, come ha detto James Cameron (il regista dell’altro film di cui sopra), permette a Scorsese di trasformarsi in Méliès: l’autore di Taxi Drive (o di Hugo Cabret, ormai) inventa e crea come se prima di lui non ci fosse stato nulla (o quasi), ipotizzando l’opera d’arte che avrebbe fatto il suo mentore se fosse vissuto ai giorni nostri, in un viaggio che non ha più come ultima fermata la stazione de La Ciotat.

Infatti, proprio come temevano gli spettatori che per primi si trovarono ad ammirare la magia del cinema, ora il treno ha magicamente oltrepassato lo schermo e non potremo più non tenerne conto.

Chimy

Voto Chimy: 4/4

La recensione del Para:

Ci voleva Scorsese per dimostrare che l’unico modo per omaggiare il cinema passato è quello di utilizzare al massimo il cinema del presente.

E difatti non sono serviti a molto gli omaggi genialmente filologici di Guy Maddin o quello mediocre e ruffiano di Hazanavicius e del suo The Artist, che per motivi più di publicity che di merito è il rivale di Hugo Cabret ai prossimi Academy Awards.

Scorsese, da studioso e amante della storia del cinema, ha capito, dopo una vita spesa anche tra restauri e cineteche, che quello che conta, nel cinema, è la magia del sogno, del nuovo, dell’invenzione. E nel 2012 non è il riproporre a funzionare, ma il reinventare: scovare il meccanismo, dargli un’aggiustata e farlo rifunzionare.

Il segreto è sempre nel meccanismo”, diceva il papà del piccolo Hugo Cabret, un messaggio che ha spinto il protagonista del romanzo di Brian Selznick prima ad aggiustare un automa per poi conoscere il grande pioniere del cinema George Méliès, e sempre senza mai smettere di credere all’impossibile.

Un percorso, quello di Hugo, che è lo stesso di Méliès e, di riflesso, quello di Scorsese: quello di persone affascinate dalla costruzione di un sogno e che lo realizzano attraverso ingranaggi e meccanismi.

Se Hugo lo fa cercando pezzi di orologi e una chiave misteriosa, Méliès lo faceva con scenografie e tagli alla pellicola, mentre Scorsese non può che farlo con 170 milioni di dollari e l’uso della stereoscopia alla sua massima espressione. Ma senza dimenticare il fascino della bella narrazione.

A ognuno i suoi ingranaggi, l’importante è che il risultato sia quello di sempre: incantare e meravigliare. E vedere, in mezzo al tripudio dell’immagine contemporanea, stralci di pellicole del muto mantenere intatta la propria forza, non può che commuovere ogni amante del cinema Ma a commuovere ancora di più è quella che possiamo considerare la quadratura del cerchio: le ricostruzioni scenografiche di Méliès che rivivono in 3d. La forza del passato nella magia nel nuovo. O viceversa.

Para

Voto Para: 3,5/4

Avatar: penetrare Pandora

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Respiro

 

Sono ormai diversi anni che su libri, siti internet e nell’opinione comune si parla spesso di una morte del cinema. Con questo non s’intende malaugurare, soltanto o soprattutto, l’arrivo prossimo e ineluttabile del decesso della settima arte tutta; ma la fine di quella visione collettiva, in una sala buia illuminata alle spalle degli spettatori dal raggio del proiettore, che ha contraddistinto l’invenzione del cinematografo da qualsiasi precedente prototipo artistico basato su immagini in movimento.

I film si guardano da un tempo che ormai è già considerabile passato in televisione, dal presente dei monitor dei computer, al futuro sempre più prossimo delle visioni sugli schermi dei cellulari.

Nonostante i dati sugli incassi delle sale non siano così preoccupanti, abbiamo paura. La visione collettiva, in quello spazio che negli anni ’10 Vachel Lindsay definiva il tempio della nuova arte, sembra crollare costantemente sotto i colpi letali inferti dalla comodità della visione domestica. Intima e gratuita.

Il cinema non è affatto morto, non sta morendo e non morirà. Ma arranca. Con la preoccupazione che negli anni a venire sempre meno persone decideranno di uscire di casa per entrare nel tempio deputato alla visione pagando un sempre più costoso biglietto.

Il cinema come si adegua a tutto questo? Da decenni cerca strade per far sì che la visione in sala rimanga un’esperienza unica e irripetibile.

Il sonoro, il dolby surround, è stata un’innovazione fondamentale, ma non bastava. Bisognava toccare l’atto stesso del vedere, cercando di sfondare quella quarta parete che tanto ha ossessionato teorici e pensatori del secolo scorso.

Come storicamente spesso accade, per approdare al futuro si ritorna al passato. Migliorandolo.

La visione stereoscopica, dell’ex-tentativo fallito del 3d, è stata ripresa nel 2009 per contribuire a “salvare” il cinema. Idea interessante, certo, ma altrettanto rischiosa.

I primi film visti con questa “nuova” tecnica hanno subito avuto un ottimo successo, ma quanti dubbi ci hanno lasciato. Davvero era qualcosa di artisticamente importante? Un passo avanti per lo spettatore o una trovata unicamente commerciale?

Le tante preoccupazioni si univano a domande e questioni: se e quando faremo quel passo che rinnoverà davvero il cinema, quel momento in cui la sala sarebbe tornata davvero l’unica assoluta protagonista. Eravamo in attesa di una risposta, che finalmente è arrivata.

Un solo film può fare tornare questo ottimismo? Sì, perché è arrivata la dimostrazione che il cinema è ancora l’arte più “importante” del nostro tempo (e nella settimana in cui ci ha lasciato Eric Rohmer che ha scritto saggi su questi concetti, sembra ancor più significativo sottolinearlo). Non soltanto non è arte morta, ma continua ad evolversi facendo passi da gigante; non si ferma e (adesso possiamo dirlo con più convinzione) non si fermerà neanche in futuro. Perché il futuro è ancora suo.

Ottimisticamente non ne parlavamo, negavamo ogni possibile problema, per noi il cinema era sempre lo stesso anche se lo era sempre per meno persone.

In realtà stavamo annaspando, ma ora siamo tornati a respirare. Su Pandora. 

 

 

Sono

 

Il tema dell’identità è uno degli elementi più importanti presenti in Avatar. Noi abbiamo ripreso la nostra condizione di spettatori cinematografici, nel senso più corretto del termine. Ma non è tutto.

Il contenuto del film gioca esplicitamente su basi facilmente riconoscibili e decisamente note.

Il tema ecologico, l’aggressione di chi viene da fuori nei confronti dei nativi del luogo, la necessità di riprendere un rapporto spirituale col mondo che ci circonda, che ci appartiene e al quale noi apparteniamo. Tutto vero e, seppur siano elementi diretti e abbastanza “semplici”, è giusto parlarne.

Ma largomento forse più interessante, oltre la forma, di Avatar è legato al significato del titolo stesso e di come viene trattato all’interno del film.

James Cameron ha messo in scena (con una stratificazione semantica che meriterebbe davvero uno scritto a parte) una delle ossessioni e una delle caratteristiche che più contraddistinguono l’umanità dei giorni nostri: la necessità di avere un alter ego virtuale, un avatar appunto, che sopperisca ai desideri che non possiamo raggiungere.

Se come hanno fatto diversi studi americani recenti, nei social network già si creano costantemente falsi profili di sé stessi in cui ci dipingiamo più belli, più bravi o più abili a fare qualcosa; questo è visibile ancor meglio nell’universo videoludico.

Creiamo qui un nostro personaggio in grado di compiere azioni per noi impossibili: saltare da un dirupo ad un altro in un videogioco d’avventura, sparare con estrema precisione in uno di guerra, schiacciare in un canestro in uno di sport ecc ecc. Ancor più significativi sono però quei mondi virtuali che ricreano direttamente la “socialità”.

Un esempio è “Second Life”, dove semplicemente si “vive” in un mondo virtuale fatto a immagine e somiglianza del nostro: però, anche e soprattutto, in quel mondo gli utenti sono portati a crearsi come vorrebbero essere in realtà; non più timidi o deboli ma forti e coraggiosi, non più costretti dalle convenzioni che tanto li fanno penare nella vita reale ma liberi di scegliere compagnie o attività che più li soddisferebbero (per ogni altro riferimento all’argomento rinvio a Adriano D’Aloia, Eteropologia dell’esperienza filmica “virtuale” in Fata Morgana-Esperienza 4; dove partendo dal pensiero di Foucault si va bene ad analizzare il tema mondo reale-mondo virtuale).

James Cameron mette in scena quest’ossessione esplicitamente con un’importanza e una carica di significazione davvero rara. E forse mai vista prima.

Il protagonista non ha più l’uso delle gambe, il suo alter ego è invece in grado di correre e saltare, è possente e possiede una forza fisica sovrumana.

Come nell’universo videoludico, l’uomo crea una figura a sua immagine e somiglianza ma che riesce a superare i limiti dell’utente stesso. E proprio come in un videogioco di genere, c’è l’addestramento, le prove fino alla scontro col cattivo. E, allo stesso modo, proprio come in un mondo virtuale (o anche onirico in questo caso) il protagonista realizza i sogni più ancestrali dell’uomo: s’innamora, ricambiato, della bella del gruppo, diventa il capo della sua gente, salva la loro (e la sua) casa sconfiggendo i nemici.

Jake Sully, il personaggio di Sam Worthington, è un novello L.B.Jefferies-James Stewart ne La finestra sul cortile, costretto in sedia a rotelle ma voglioso (anche per noia) di essere protagonista di un’avventura.

Ma rispetto al personaggio hitchcockiano non si limita a guardare (con tutti i parallelismi con la visione cinematografica possibili) l’azione e “viverla” tramite altre persone; questa volta lui stesso arriva a penetrare lo schermo, per “viverla”, sì attraverso un corpo altro ma che in realtà è sé stesso.

O meglio, il suo Avatar.

 


Vedo

 

 

Giona A.Nazzaro ha detto che: «James Cameron è il D.W.Griffith del nuovo cinesecolo. E Avatar è il suo (ri)nascita di una nazione».

Certo che forse Nazzaro potrebbe avere un po’ esagerato, ma la sua affermazione oltre a dimostrare il coraggio di un ottimo critico, in grado di prendersi ampie responsabilità e che giustamente viene considerato, soprattutto dai cinefili più giovani, uno dei più bravi nel suo mestiere, è anche particolarmente significativa per il paragone che mette in gioco.

Griffith, prendendo spunto da tecniche messe in atto dal cinema italiano, aveva “istituzionalizzato” il linguaggio cinematografico nel 1915 con Nascita di una nazione; James Cameron con “Avatar” istituzionalizza il 3d e, con esso, un nuovo tipo di visione che prima non avevamo mai potuto ammirare.

Oltre a questo, gli effetti speciali della Weta (che hanno cercato, vanamente, di salvare il brutto ultimo film di Peter Jackson Amabili resti) creano attraverso Pandora una meraviglia visiva e un’esperienza spettatoriale davvero unica nella storia del cinema.

Necessario citare anche le parole di enrico ghezzi in questo senso: «La terza dimensione del film siamo noi spettatori, sollecitati a correre oltre la velocità della luce sulle nostre gambe-occhio intorpidite. Non si finisce mai di cadere, e poi ci si accorge che non è un cadere ma un volare».

L’ossessione del vedere è anche presente all’interno della narrazione stessa: «Io ti vedo» dicono i Na’vi quando incontrano un altro essere vivente. Quel vedere sta per sentire l’altro con tutti i sensi, come parte del proprio essere e del proprio mondo.

Una metafora diretta dell’esperienza di visione per gli spettatori che vedendo questo film, in realtà lo vivono completamente, come fossero anch’essi su Pandora. Il pianeta-vaso che contiene tutte le meraviglie del creato, dove gli uomini (come vuole la mitologia) non possono mettere il naso. E gli occhi.

James Cameron, non più solo re del mondo ma dio dell’universo cinematografico, e i suoi collaboratori hanno creato con Pandora un pianeta virtuale dove non si può che rimanere abbagliati di fronte alle straordinarie montagne sospese o all’albero delle anime.

Non si può storcere il naso di fronte ad un tale senso dello spettacolo, se la storia può essere considerata troppo classica o prevedibile. Avatar è il Guerre stellari del nuovo millennio.

Anche in quel caso la vicenda narrata era tradizionale, ma forse proprio questo può essere un pregio perché con tutte le innovazioni tecnologiche possibili ci si appoggia a basi solide che non precludono affatto il coinvolgimento emotivo (come dimostra la toccante e poetica sequenza dell’abbraccio fra Neytiri e il reale (?) corpo di Jake, del quale prima aveva conosciuto soltanto l’anima racchiusa nel suo avatar).

Laurent Jullier (uno dei più grandi studiosi di postmodernismo cinematografico) faceva coincidere l’avvento di Guerre stellari con la nascita del cinema postmoderno; Avatar vedremo se sarà l’inizio di una nuova possibile evoluzione.

Ma forse la vera natura di Avatar sta semplicemente in quel desiderio, già accennato, che da sempre ha ossessionato la settima arte e che ora possiamo finalmente realizzare: lo sfondamento della quarta parete, l’incursione dello spettatore nello schermo, nell’oggetto del suo stesso sguardo.

Reale nuova (ri)nascita virtuale del cinema che è già Storia.

 

Chimy

Voto Chimy: 4/4

 

 

RECENSIONE DEL PARA:

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Per restare in ambito tecnologico, è bene definire Avatar come un aggiornamento. Un aggiornamento di un programma, non una nuova versione.

Avatar si inserisce perfettamente in quella lista di film che hanno contribuito a modificare l’esigenza spettatoriale, ma non a modificarne definitivamente l’esperienza, o a modificare il mezzo (al massimo una parte della tecnica).

Avatar, con un 3d di qualità ed efficacia altissima, sta facendo (o visti i tempi, ha già fatto) un po’ quello che fece Guerre Stellati con il Dolby Stereo, o Jurassic Park con il DTS, ad esempio.

Questo perché il film, seppur obiettivamente coinvolgente ed avvolgente, non ha nessun tipo di riorganizzazione rivoluzionaria del materiale filmico, se non l’aggiunta, certamente indispensabile per l’arricchimento della visione, della profondità di campo tridimensionale.

Avatar, inoltre, è un altro ottimo (dopo Il signore degli anelli) film d’animazione WETA. Cameron ci avrà messo la regia, ma se le meraviglie di flora e fauna di Pandora ci hanno affascinato e stupito, il merito è loro. Teniamolo tutti bene a mente, vista la forza con cui questo aspetto contribuisce al giudizio sul film.

Ma Avatar, al di là dell’effettivo o meno carattere rivoluzionario, sfrutta il 3d non solo esperienzialmente, ma anche concettualmente. Il 3d, infatti, rappresenta ad oggi l’ultimo approdo tecnologico della produzione e della fruizione cinematografica (anche se è un concept vecchio 50 anni, solo oggi funziona davvero), e serve a completare il quadro di riflessione tematica intrapreso da Cameron.

L’avatar di Jake Sully, un portatore di handicap, è una riproposizione virtuale (nella diegesi reale) di sé, e che oggi contraddistingue alter ego virtuali in ogni esperienza videoludica. Per Jake Sully, essere un Na’vi (per diventarlo si fa un link, e Link e Navi sono due personaggi della saga videoludica Zelda, e i Na’vi sembrano degli zora di terra) è la sua esperienza virtuale/reale, che permette lui di fare cose inimmaginabili, e di avere una vita sociale. In questo caso, il fatto che il protagonista sia un diversamente abile, non è soltanto un parallelo meta cinematografico (è bloccato come uno spettatore), ma anche una sorta di simbolo di deficienza sociale che spinge molte persone a rifugiarsi nel virtuale sotto le spoglie di un avatar. Jake, infatti, attraverso il suo avatar e la sua sempre più duratura presenza tra i Na’vi, comincia a perdere il senso di realtà, considerando reale la vita virtuale, e virtuale quella reale, scandita dai videolog, altra forma di comunicazione virtuale. Pandora, inoltre, è un pianeta di link, in cui tutto e tutti sono collegati, che permette la totale integrazione con gli esseri che lo popolano. Pandora, in pratica, è un mondo che Jake Sully, attraverso il proprio avatar, affronta come se fosse un MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Playing Game).

Giustamente, per inscenare un discorso di riflessione meta mediatica di questo tipo, incentrato sul progressivo aumento delle tecnologie all’interno della realtà (e in Avatar pullula la realtà aumentata), la scelta del 3d è significativa perché è da considerarsi la forma di manifestazione tecnologica al cinema più avanzata, e quella più efficace per garantire una certa esperienza, simile (ma comunque lontana) all’esperienza d’interazione videoludica. Non si arriva a interagire, ma ci si avvicina, in alcune sequenze, all’immersione.

Ma, nonostante questo, se il 3d appare utile ad arricchire la visione del film, non resta che una semplice (seppur avanzatissima) aggiunta di profondità di campo aumentata (il 3d aumenta la realtà del cinema, e si ritorna, quindi, ad un utilizzo concettuale del mezzo, usato sopra ad un mondo pieno di realtà aumentata), in quanto, per il resto, il film è girato nella maniera più canonica possibile, senza nessuna vera sperimentazione linguistica applicata al nuovo mezzo. È più ambizioso ed istituzionalizzante, per il 3d, il piano sequenza del fantasma del Natale passato di A Christmas Carol, che tutto Avatar. Con questo, è bene specificare, non si vuole attaccare Avatar, perché anche qui, come per Coraline e la porta magica o Up, il 3d arricchisce la visione, mettendosi al servizio del Cinema. Ma l’aveva già fatto un anno fa Coraline nella stessa maniera, forse senza suscitare l’empatia (e il delirio di massa) tipica del fotorealismo, della narrazione classica e della pubblicità a tappeto.

E Avatar, inoltre, si affida ad una narrazione classica e stereotipata, con un plot banale ma di sicuro successo, costruendoci però una sceneggiatura solida, che fa chiudere un occhio alle scritture approssimative dei personaggi. Ma, teniamolo presente, non sempre in un’esperienza che ambisce al videogioco e all’immersione ottica è utile una narrazione ambiziosa, se l’obiettivo è l’esperienza, può bastare il minimo sindacale.

Perché, in fondo, Avatar non è un film da guardare in un’ottica di analisi del testo filmico (in questo caso è facile la stroncatura, soprattutto dal punto di vista narrativo), ma in un’ottica, più ampia, di spettatorialità e contesto. Avatar, con il suo richiamare alla sala milioni di spettatori di ogni ceto ed età, detta, per forza di cose, quello che il pubblico, da qui in avanti, esigerà vedere se si recherà in una sala 3d. E Avatar, oltretutto, diventerà, o è già diventato, l’emblema di una sorta di ripetizione storica: come il cinema delle origini faceva parte di una serie culturale, a diretta concorrenza con altre offerte d’intrattenimento, e senza un luogo privilegiato di visione, così oggi il cinema sembra aver perso la sua identità di prodotto artistico da fruire in un luogo specifico, entrando a far parte di una serie culturale, “audiovisione”, di cui fa parte televisione, videogioco, film in dvd, film su pc, ecc. Avatar dimostra che il 3d è una spinta per (ri)decretare la sala cinematografica (senza quindi influire sul mezzo cinema) come l’unico luogo deputato ad una certa visione.

Per tutto questo, e per il fatto che il film affascina, coinvolge e si sviluppa con i giusti tempi di azione e stasi, possiamo affermare che Avatar è sì un grande ed importante film, ma non un capolavoro e nemmeno una rivoluzione. Un aggiornamento, appunto, ma il programma è sempre quello, è sempre il solito Cinema.

 

Para

Voto Para: 3,5/4

"Il divo": il capolavoro che stavamo aspettando!

Paolo Sorrentino ha recentemente dichiarato che per lui il cinema è composto soprattutto da immagini e musica; concetto che lo avvicina moltissimo alle idee di registi, come René Clair e Walter Ruttmann (per non citare Charlie Chaplin), che all’inizio del sonoro rifiutavano interamente l’uso del parlato dando alla musica un ruolo preponderante.
Sorrentino ha poi spiegato che nei suoi film i dialoghi sono inseriti soltanto quando li reputa assolutamente necessari a supportare la narrazione; l’idea magnifica, e perfettamente riuscita nel capolavoro Il divo, è quella di far comunicare il più possibile le sole immagini, che sono da sempre la base più importante del Cinema.
In realtà, però, l’ultimo film del(l’ormai) grande regista italiano è un’opera incentrata sui dialoghi. Ma non nel senso convenzionale del termine…

 

 

Il dialogo audiovisivo

Michel Chion, il cui “L’audiovisione suono e immagine nel cinema” (Lindau, 2001) è un riferimento fondamentale per questo paragrafo, non sarà rimasto contento dalla visione de Il divo perchè sarà probabilmente costretto a scrivere un nuovo libro, includendovi prepotentemente l’opera sorrentiniana.

Ancora al giorno d’oggi, la maggioranza assoluta degli autori europei trascura del tutto le importanti innovazioni fatte nel sonoro negli ultimi decenni.

Bisogna oltrepassare l’oceano per trovare registi di nome che abbiano cercato di incrementare la sensorialità spettatoriale tramite il suono: Coppola, Malick e, più di tutti, David Lynch.

Paolo Sorrentino, con questo film, conferma (migliorandosi) di essere uno dei pochi in Europa a sviluppare il suo cinema dando pari importanza e dignità alla percezione visiva e a quella sonora, che si influenzano reciprocamente mediante il fenomeno del valore aggiunto (cfr. Michel Chion).

Durante la splendida scena in cui viene fotografato il settimo governo Andreotti, c’è una sospensione: la mdp si avvicina al volto del protagonista, mentre i suoni intorno sembrano gradualmente fermarsi e, insieme ad essi, sembra bloccarsi anche l’immagine sul volto immobile di Toni Servillo, come se stessimo vedendo noi stessi una delle fotografie che i giornalisti stanno scattando. Sembra quasi che l’immagine e il suono si fermino contemporaneamente; il mondo audiovisivo così si immobilizza per ascoltare con attenzione la voce interiore del protagonista.

Impossibile non citare poi la scene visive per eccellenza: i piani sequenza che Sorrentino gira maestosamente.

Uno dei più interessanti è quello alla festa di Pomicino. La mdp gira intorno alle stanze, scrutando l’ambiente che si trova dinnanzi, mentre la musica suona a ritmo furioso.

Inizialmente ci ritroviamo nella stanza più caotica: luci che sembrano seguire una velocità più sonora che visiva, ragazze che ballano sul cubo, musica altissima. La mdp cerca di passarci velocemente, non può essere qui il protagonista, deve continuare a cercare.

Lo troviamo in un’altra stanza, uguale alla precedente per musica e architettura, ma opposta per movimento e posizione dei personaggi.

Ad un certo punto la mdp sembra fermarsi per ascoltare qualche parola di Livia Danese al marito e, come per incanto, sembra (o succede davvero?) che anche la musica si abbassi per qualche secondo: una sensazione di pausa, questa volta, del movimento audiovisivo, che si ferma per qualche attimo, per poi proseguire a breve il suo sincrono movimento.

La scena, forse, più significativa di tutta la pellicola, a livello più contenutistico che formale, è però un’altra.

Giulio Andreotti, in preda ad un fortissimo stress che cerca di nascondere durante il giorno, cammina tutta la notte avanti e indietro per il corridoio di casa sua.

La mdp lo segue come può, soprattutto, mentre è al centro (luminoso) della sua “passeggiata”; agli estremi c’è invece il buio che nasconde la sua figura; nemmeno le due statue che sembrano scrutare il suo tragitto, riescono a vedere la fine del corridoio. Sentiamo soltanto i suoi passi, indizi sonori materializzanti della sua presenza, che ci fanno percepire che si trova ancora nel nostro campo visivo, è solo l’oscurità a negarcelo.

Potrebbe essere la scena simbolica di tutto il film: Sorrentino ci porta alla luce dei frammenti di Andreotti (il passaggio centrale), ma il personaggio resta comunque oscuro nel finale. Non si può cogliere definitivamente la soluzione dell’enigma che aleggia attorno al divo Giulio.

Ci fermiamo, ma si potrebbero citare molte altre sequenze, per mostrare come Sorrentino abbia dato grandissima attenzione a suono e ad immagine.

Entrambe le percezioni sono sviluppate perfettamente e il regista (caso raro per l’Europa) riesce a farle dialogare in un maestoso concerto audiovisivo come se ne sono visti davvero pochi nella storia del cinema.

Michel Chion, forse, da una parte non sarà contento dopo aver visto Il divo per i motivi detti; dall’altra però sarà certamente ammirato e soddisfatto da Sorrentino che sembra aver imparato ed applicato alla perfezione uno dei concetti cardine del teorico francese: «Non vedo la stessa cosa quando sento. Non sento la stessa cosa quando vedo».

 

 

Il dialogo con lo spettatore

«Tenetevi forte alle sedie!» si sente a circa metà pellicola: un saggio consiglio da dare agli spettatori, che potrebbero rimanere estremamente colpiti e spaesati dalla visione del film.

Il divo dialoga con il pubblico per tutta la sua durata.

Con la prima immagine vanno a sfaldarsi i dubbi che Sorrentino abbia girato un film poco personale o legato unicamente a basi contenutistiche, storiche e sociali.

Il regista ci comunica fin da subito che il film è interamente suo, e lo sarà fino alla fine.

Vediamo infatti un incipit con Andreotti che tenta un particolarissimo (e grottesco) rimedio contro l’emicrania; la stessa identica procedura, solo con un metodo diverso seppur altrettanto bizzarro, che faceva Geremia De Geremei all’inizio de L’amico di famiglia.

La voce interiore soggettiva del protagonista, che riprenderebbe la sua scrittura sul diario, sembra parlare direttamente con noi spettatori; come se il personaggio Andreotti si fidi di noi e voglia rivelarci i suoi segreti nascosti.

Ma forse è solo una nostra illusione, il vero mistero della sua vita è svelato in campo a Francesco Cossiga: l’amore per Mary Gassman, sorella del ben più celebre Vittorio.

Fondamentale sarà anche il momento del monologo di Andreotti, che si sfoga rivolgendosi alla moglie, ma parlando in realtà con noi spettatori.

Sorrentino gli costruisce intorno una scenografia di natura esplicitamente teatrale, con sipario e riflettori che puntano su di lui. Una volta che ha finito di parlare, questi si spengono: lo spettacolo del potere rivelato, per il momento, è terminato.

Altrettanto imporante è il meraviglioso piano sequenza finale, in cui prima la mdp segue Andreotti di spalle, poi ci regala un’emozionante falsa soggettiva, e infine termina sul suo primo piano: sul suo volto nel quale scorgiamo una lacrima formarsi nella pupilla destra.

Il divo Giulio aveva detto che aveva pianto solo due volte nella sua vita: quando morì De Gasperi e quando venne nominato per la prima volta sottosegretario.

La terza volta è per noi spettatori: si commuove guardandoci negli occhi. Quegli occhi che hanno appena visto, seguito e giudicato la sua storia e che ora riflettono la sua sagoma… proprio come le pupille di un gatto bianco che si trovava casualmente (?) nei corridoi del potere.

 

 

Il dialogo con la storia del cinema

Il divo è un’opera che mostra la straordinaria conoscenza di Sorrentino del mezzo cinematografico.

Il regista riesce a realizzare un’opera coraggiosissima per i contenuti e monumentale per la forma, arrivando a far dialogare (con grande stile ed equilibrio) omaggi e riferimenti alla storia del cinema con idee originali e personali.

Una delle scene di maggior impatto di tutto il film è quella dell’arrivo della “corrente andreottiana”. Una meravigliosa danza western a Montecitorio, dove Sorrentino riesce a far dialogare due dei più grandi registi del genere della storia: i suoni e il senso di attesa di Sergio Leone si vanno ad unire alla dilatazione temporale di Sam Peckinpah.

Una scena-capolavoro per la quale è necessario andare a circa 40 anni fa per trovarne di pari livello nel cinema italiano.

Omaggio o meno, Sorrentino realizza poi un magnifico montaggio della attrazioni, tecnica tipicamente Ejzensteiniana, che nell’ “autoriale” e “colto” cinema odierno non viene praticamente più usata.

Alla corsa di un cavallo al galoppo, si va a sostituire alternativamente quella di un uomo (Salvo Lima) che cerca di sfuggire alla morte.

E’ certo però che i riferimenti maggiori sono quelli al cinema anni ’70: dal forte impegno sociale che parte spesso dal grottesco di Petri, al bicchiere effervescente Scorsesiano (che a sua volta omaggiava Godard), al massacro iniziale Coppoliano, con il quale si vanno ad eliminare uno ad uno tutti i “nemici” del “boss”.

Forse però sono proprio le sequenze interamente sorrentiniane quelle più straordinarie: le angolazioni, l’uso degli specchi, la mdp che non stacca praticamente mai; non ci sono tagli (ad es.) dall’immagine riflessa di Moro nello specchio alla sua scomparsa, o dal riflesso di Andreotti in uno specchio del Vaticano all’arrivo (lontanissimo) al suo primo piano.

Impossibile non citare poi la già memorabile sequenza dello skateboard (geniale idea del regista): oggetto che parte dal Palazzo (i mandanti) e giunge al piccolo tunnel (gli esecutori) che porta all’esplosione nella quale muore Giovanni Falcone.

Il divo è un capolavoro perfetto in tutte le sue componenti: sia contenutistiche che formali.

Un magnifico bricolage musicale postmoderno, nel quale svetta la scena con la canzone più popolare e conosciuta in assoluto: il magico momento de I migliori anni della nostra vita (scelta da Sorrentino per il suo testo perfettamente aderente alla situazione mostrata).

Delle interpretazioni straordinarie che sarebbero da citare tutte: Piera degli Esposti, Fanny Ardant, Giulio Bosetti, Franco Bucci, Carlo Buccirosso… e, naturalmente, i due protagonisti.

Anna Bonaiuto, che si conferma la più grande attrice italiana che abbiamo (forse è tempo di capirlo); e, soprattutto, lui: Toni Servillo, uomo ed attore immenso, che ormai non è più semplicemente sulla scia dei Volontè, dei Mastroianni, dei Gassman…e gli altri Nostri massimi attori che raggiunge ufficialmente con questo film, che lo proietta ad essere, non solo il più grande attore italiano vivente (questo lo sapevamo già dal bellissimo Le conseguenze dell’amore), ma uno dei migliori al mondo.

Anche se naturalmente il plauso più grande va a Paolo Sorrentino (anche per una perfetta sceneggiatura, scritta da solo) che entra oggi nel clan dei maggiori registi europei viventi, e se pensiamo che non ha ancora compiuto quaranta anni… ci vengono i brividi (di gioia ed emozione naturalmente) a pensarci.

Grazie soprattutto alla sua regia (come non esaltarsi già nei primi minuti con quei movimenti di macchina tesi a “raddrizzare” le didascalie/presentazioni in rosso) perfettamente conscia delle basi linguistiche del cinema e perfettamente equilibrata nel rapporto forma-contenuto, Il divo è un capolavoro vero e proprio, fra i massimi film visti nel nuovo millennio.

Un’opera d’arte di cinema assoluto, che ci fa gridare rimanendo in silenzio.

Forse è proprio lo stesso tipo di silenzio che colpiva le persone che entravano nell’archivio andreottiano.

Una sensazione che porta Il divo ad entrare a far parte di un altro tipo di archivio: quello dei capolavori che la storia del cinema ci ha regalato.


Chimy

Voto Chimy: 4/4

PREMESSA: dato che sarebbe inutile farlo, non ripeterò una parola di quanto detto da Chimy, in quanto sottoscrivo e approvo ogni sua singola sillaba. Cercherò dunque di scrivere il poco che credo sia ancora necessario dire. In realtà non è poi così tanto poco, ma è meno di quello che ha scritto Chimy. Quindi rallegratevi, se siete arrivati fino a qui manca poco a finire. Però, se siete stanchi, fate una pausa.

 

Introduzione

Popolarità e potere, immagini e musica, Servillo e Sorrentino: i primi proiettati (sullo schermo), i secondi proiettori (di senso e valore).

Sul piano simbolico contenutistico, sul piano linguistico e sul piano diegetico “Il divo” è la perfetta comunicazione continua di due mondi indissolubili.

 

Punto di vista, punto d’ascolto

Pensare che “Il divo” sia un film in cui venga privilegiato il punto di vista di Andreotti, appare riduttivo. La realtà, infatti, è che il film alterna, in continuazione, punti di vista differenti. Questo non accade con un ordine preciso, ma si passa da sequenze con punto di vista di Andreotti, ad altre con altri punti di vista soggettivi ed altre ancora con punti di vista oggettivi. Fin qui, a ben vedere, nulla di strano. Il problema è la percezione da parte dello spettatore. Perché spesso il punto di vista rimane incerto, non facilmente identificabile.

Ad esempio, prima seduta di Andreotti di fronte alla Commissione d’inchiesta parlamentare: il punto di vista è di Andreotti, e lo si evince facilmente dalla soggettiva piena che apre la sequenza. La macchina da presa resterà sempre al servizio della soggettività di Andreotti. La seconda seduta, invece, si apre dalla parte del presidente della commissione, e di compone di una serie di zoom incrociati sulle varie risposte di Andreotti. Il flusso è spezzato, varia di angolazione, il punto di vista è, in senso figurato, quello dell’intera commissione. Andreotti, comunque, rimane al centro, anche scenografico, della sequenza.

Ne “Il divo” al centro dell’attenzione c’è sempre Andreotti, anche quando non è direttamente  il soggetto, perché, in tutti gli altri casi, lui resta comunque l’oggetto. A caricarsi di questo nella diegesi c’è Toni Servillo, a caricare di questo fuori dalla diegesi c’è Sorrentino.

Il piano sequenza finale è emblematico: si passa da una soggettiva, che scopriremo essere una semi soggettiva (una perfetta falsa soggettiva felliniana), ad un dolly che fa un punto di vista oggettivo della corte dei giudici, ad un primo piano con punto di vista soggettivo di Andreotti. Su quest’ultimo primo piano è importante ciò che udiamo: è una voce registrata (di Aldo Moro) che parla del divo Giulio.

Per quanto riguarda la parte uditiva è però necessario parlare di punto d’ascolto.

Il punto d’ascolto (una trasposizione sul piano uditivo del punto di vista), è invece sempre oggettivo. Perché il punto d’ascolto è sempre e solo quello dello stesso spettatore. Il dialogo con lo spettatore (vedi analisi Chimy) non è soltanto quello di Andreotti, ma anche quello di Sorrentino, e non solo in senso di firma autoriale, ma per il modo con cui musiche, suoni e silenzi sottolineino il dialogo visivo. Quando la carcassa dell’auto di Falcone cade in ralenti, il silenzio (che non è mai neutro) è dato dal rumore, lievissimo, delle parte meccaniche e della carrozzeria distrutta. L’esplosione è l’assordante prezzo da pagare per aver assistito al silenzio della strage.

Il punto di vista e d’ascolto, infine, impone un oggetto dello sguardo più ampio, che non interessa la diegesi ma di cui la diegesi è un simbolismo.

 

Oggetto dello sguardo

“Il divo” non è un film su Andreotti, ma IL film sull’Italia.

Seguendo un sillogismo aristotelico allora verrebbe da dire che Andreotti è l’Italia. Non in senso assoluto, ma sicuramente in senso relativo. Prendendo in esame “Il divo”, Andreotti simboleggia l’Italia nella sua complessità. E come scrisse (e disse, nel film) Scalfari, è la complessità a fare la grandezza. La grandezza dell’enigma.

L’Italia, politica, è enigmatica: macchinazioni, corruzioni, omicidi. L’Italia è, per semplificare, machiavellica.

L’Italia, umana, è enigmatica: le reazioni sono incontrollate, selvagge, impulsive, ingenue. L’Italia, rifacendoci alle parole di Andreotti, è, per questi motivi, viva.

Andreotti è machiavellico, senza ombra di dubbio, ma è vivo. Nel suo machiavellismo freddo e calcolato ha avuto reazioni e passioni incontrollate.

Andreotti è l’Italia.

L’Italia è Andreotti.

Perché l’Italia è nata democristiana e morirà democristiana.

 

L’informazione silenziosa (perché zittita)

Una piccola parentesi riguardante l’allegoria Italia tramite il divo Giulio è contenuta nel meraviglioso dialogo tra Eugenio Scalfari e Andreotti.

Scalfari elenca minuziosamente alcune delle accuse dirette ed indirette nei confronti di Andreotti, ipotizzandole, per sottinteso sapiente, delle casualità. Andreotti non risponde, perché è stato lui a salvare “La Repubblica”, nel ’91, dal tentativo di acquisizione di Silvio Berlusconi. Un favore non chiesto da Scalfari, ma che, in quanto ricevuto, dovrebbe comportare un atteggiamento servizievole.

Nel film Scalfari replica invocando la complessità, Andreotti fa altrettanto. Dopodiché la conversazione viene interrotta, Sorrentino non vuole venga aggiunto altro.

In Italia, l’informazione e il mondo politico si parlano come Scalfari e Andreotti. Cioè senza risultati concreti nelle mani del cittadino (e dello spettatore).

 

Caso vs Volontà di Dio

Due termini che designano la stessa cosa.

Due approcci differenti: uno laico, l’altro cristiano.

Scalfari parla di caso, Andreotti di volontà di Dio. Curioso parlare di volontà di Dio quando riguarda la morte di qualcuno. A ben vedere, in questo caso, l’approccio (demo)cristiano di Andreotti non appare così tanto figlio della benevolenza del Signore.

 

Scrittura

Ciò che è scritto, ne “Il divo”, è fondamentale. Sia ciò che è scritto sullo schermo che ciò che è scritto per lo schermo.

Il glossario iniziale scorre sullo schermo in un silenzio imbarazzante. Sorrentino sceglie di accompagnare le didascalie sfruttando il classico silenzio in cui cade la sala ad inizio film. In questo caso, noi spettatori, siamo costretti ad assimilare informazioni (per alcuni già note) in religioso silenzio. L’informazione in questo caso è silenziosa, ma non zittita, anzi, zittisce.

Le scritte rosse, invece, che presentano luoghi e persone e che appaiono durante tutto il film sono spaventosamente perfette. Nella loro obiettivamente frequente ed aggressiva presenza non disturbano mai.

Parlando di sceneggiatura “Il divo” lascia a bocca aperta. La sintesi raggiunta da Sorrentino è sorprendente. Il mosaico di fatti privati e pubblici che Sorrentino sceglie di portare sullo schermo è scritto e intervallato con precisione millimetrica.

Niente è inutile, nient’altro serve.

Tutto ciò che c’è è quello che basta.

Due parole vanno anche dette per Giuseppe D’Avanzo, giornalista da sempre interessato alla vita di Andreotti che ha partecipato alla sceneggiatura in qualità di consulente. C’è già chi, in Italia, critica il film per la sua presenza (considerandolo solo un anti Andreotti senza scrupoli) e per le presunte forti insinuazioni mosse contro Andreotti.

La realtà è che ne “Il divo”, nel momento in cui viene fatta una presa di posizione forte, successivamente questa viene smentita o comunque acquisisce incertezza. Ad esempio: l’incontro con Riina (l’attore è un sosia), non è girato dal punto di vista di Andreotti, ma da quello del’autista del boss, che sta confessando agli inquirenti.

Il risultato è muovere dubbi, e non dare risposte. E’ prima mostrare, poi dimostrare, poi mostrare che la dimostrazione non era sicuramente certa.

 

Paul Thomas Sorrentino

“Il divo” è per l’Italia quello che “Il Petroliere” è per il capitalismo.

Ma “Il divo” è, paradossalmente, ancor più mascherato, perché il personaggio chiave non è un “anonimo” Plainview, ma il divo Andreotti.

Tra l’altro, curiosamente, Paolo Sorrentino e Paul Thomas Anderson hanno inquietanti punti di contatto: coscritti (1970), omonimi (Paolo), hanno fatto un film sul sottomondo del denaro (“Amico di famiglia”, “Sidney”), uno sul sottomondo dello spettacolo (“L’uomo in più”, “Boogie Nights”), una non convenzionale storia d’amore (“Le conseguenze dell’amore”, “Ubriaco d’amore”), e una forte riflessione critica sul proprio paese (“Il divo”, “Il petroliere”). A Sorrentino manca solo un film corale e poi siamo apposto.

In più entrambi scrivono le proprie sceneggiature, sono attenti alle musiche e sono due registi dalla forte firma autoriale.

Sorrentino è il P.T.A. Italiano.

Per assoluto e dovuto rispetto, P.T.A. è il Sorrentino statunitense.

 

Conclusione

“Il divo” è un capolavoro.

“There will be blood”, scorrerà il sangue, era una profezia.

“Il divo”, invece, è il reiterarsi della stessa certezza: l’Italia avrà sempre un suo divo, vecchio o nuovo, perché il divo, nella sostanza, è sempre uguale, e quindi, anche l’Italia.


Para
Voto Para: 4/4

Persona: Liv Ullmann e Bibi Andersson a confronto nel (a nostro parere) più grande film di Bergman

Fate silenzio, inizia il film.

Due luci si accendono, una pellicola scorre in un piccolo proiettore: in rapida successione si sovrappongono un pene (ricordate cosa diceva Tyler Durden?) e disegni animati; un ragno e un agnello sacrificale; immagini slapstick e chiodi che si piantano nelle mani di (?) Cristo.

Forse è la dimostrazione che, a più di 40 anni di distanza, le teorie Ejzensteniane sulla messa in pratica del montaggio delle attrazioni sono ancora valide, o forse Bergman ha voluto mostrare frammenti di contenuto che hanno caratterizzato la sua filmografia precedente: il sesso, la religione, il sacrificio, la passione per gli albori del cinema (come racconta nella sua autobiografia: “La lanterna magica”), il ragno-rappresentazione di Dio in “Come in uno specchio” e, per ultima, la neve che rimanda a “Luci d’inverno” e alla sua Svezia che non ha mai voluto lasciare.

In seguito vediamo in una stanza-limbo alcuni corpi (morti?), un bambino si alza dal letto, accarezza un enorme schermo che riproduce il volto di una donna. Questo volto inizia a sfocarsi, ne compare un altro (di un’altra donna) e lui continua ad accarezzarlo.

Questo straordinario incipit, uno dei migliori di sempre, rimane profondamente enigmatico per il momento. Sicuramente, però, Bergman vuole suggerirci già dalle primissime immagini che stiamo assistendo ad una finzione, un film che avrà probabilmente risvolti metacinematografici e, forse, che quei corpi (compreso il bambino) sono personaggi che non hanno trovato spazio all’interno della storia.

Dopo i titoli di testa inizia la narrazione vera e propria: l’infermiera Alma (Bibi Andersson) riceve l’incarico di accudire l’attrice Elisabeth (Liv Ullmann) che, mentre recitava L’Elettra, smise improvvisamente di parlare. Da quel momento si è chiusa in un mutismo assoluto: Alma cercherà di scoprirne le ragioni e farle tornare la parola.

Inizialmente però, più di Alma, è la dottoressa che sembra comprendere il suo silenzio: capisce che il fine di quell’estremo gesto è la volontà di smettere di sembrare e iniziare ad essere. Senza parlare si evita di mentire, si perdono quelle maschere che hanno accompagnato Elisabeth per tutta la vita.

Come in Beckett le parole sono futili, il silenzio è l’unica verità possibile.

Ma così Bergman sembra aprire ad un paradosso: stare in silenzio non è che un’ulteriore maschera, la vita stessa comporta obbligatoriamente la rappresentazione di un ruolo. Si può essere davvero sè stessi?

Alma e Elisabeth (i volti che quel bambino accarezzava sullo schermo), su consiglio della dottoressa, vanno a passare del tempo su un’isola, nella speranza che questo porti giovamento all’attrice.

E’ curioso che il regista scelga, per la prima volta, di girare sull’isola di Faro, quello stesso luogo dove Bergman ha deciso di passare (quasi isolato) gli ultimi decenni della sua vita.

Alma, una strepitosa Bibi Andersson, e Elisabeth, Liv Ullmann in una delle migliori interpretazioni della storia del cinema, diventano sempre più intime: l’infermiera descrive alla grande attrice tutta la sua vita, le sue ossessioni, il suo amore per Mark.

Arriva persino a raccontarle di essere rimasta incinta, in seguito ad un rapporto con dei ragazzini sconosciuti, e di avere avuto un aborto naturale (?).

La natura metacinematografica del racconto viene comunque sempre sottolineata da Bergman con sguardi in macchina e, in un momento memorabile, Elisabeth che fotografa il pubblico.Questo processo trova il suo culmine a metà del film: la pellicola si brucia, è necessario cambiarla; l’immagine rimane sfocata per alcuni secondi prima di riprendere la sua nitidezza naturale.

Il film riprende, ma ogni cosa sembra essere cambiata.

Il bel rapporto che si era instaurato tra le due donne sembra finire quando l’infermiera apre alcune lettere scritte dall’attrice per la dottoressa: vi trova tutto ciò che aveva raccontato ad Elisabeth in quei giorni, compreso l’episodio dell’aborto.

Le due litigano e, dopo un duro scontro, Elisabeth corre sulla riva del mare con Alma, dietro, che la insegue per chiederle perdono.

La sera Alma entra in camera di Elisabeth e la osserva dormire: questo momento, spiega Bergman, è il punto centrale del film: “Alma ha paura, la guarda timidamente, ed improvvisamente si scambiano le rispettive personalità. (…) Alma prova la condizione dell’anima dell’altra donna, per assurdo. Incontra la signora Vogler, che ora è diventata Alma e parla con la sua voce. E’ una scena-specchio".

Nella sequenza successiva (forse un ricordo dell’attrice) Alma incontra il marito di Elisabeth, che vede in lei sua moglie.

Grazie ad una magnifica costruzione dell’inquadratura Bergman ci mostra il volto di Liv Ullmann in primo piano e, dietro di lei,  Bibi Andersson e Gunnar Bjornstrand che si comportano come una normale coppia sposata.

Questo viaggio all’interno dell’inconscio femminile sembra la base (il confronto è d’obbligo) degli ultimi film di David Lynch. Il rapporto che si instaura tra Alma ed Elisabeth è molto simile a quello tra Diane e Camille in “Mulholland Drive” (paragone di cui ha fatto un ottimo saggio Luigi Porto): la duplicità, le diverse dimensioni, il sogno, un rapporto di strettissima intimità… che sfociano (come anche in “INLAND EMPIRE”) in una profonda riflessione metacinematografica sulla natura della finzione (come quello di Liv Ulmann il personaggio di Naomi Watts, in “Mulholland Drive”, è un’attrice).

Il tema del doppio e dello scambio di personalità trova il suo estremo nella sequenza successiva, in assoluto, a mio parere, una delle più importanti della seconda metà del ‘900 cinematografico.

Bergman ci mostra per due volte lo stesso dialogo tra le due protagoniste: prima mostrandoci il volto di Elisabeth, poi quello di Alma.

L’infermiera ha ormai capito il segreto dell’attrice: ella ha avuto un bambino che non desiderava, che voleva nascesse morto; nonostante il suo disprezzo per lui, questi ama profondamente sua madre e lei non riesce a ricambiare questo suo amore.

In realtà questo non è un dialogo ma un monologo, non è un colloquio ma un soliloquio; è solo Alma a parlare mentre Elisabeth la sta a sentire.

Entrambe hanno rifiutato il proprio figlio: Alma con l’aborto, Elisabeth con il desiderio che suo figlio non fosse mai nato.

Questo parallelismo porta all’unità estrema tra le due, raffigurata dalla (memorabile, geniale, strabiliante) fusione tra i due volti.

Sono molto interessanti le parole di Bergman quando racconta di aver mostrato quest’immagine (doppia) alle due attrici: “Quando ricevetti la copia del filmato dal laboratorio, chiesi a Liv ed a Bibi di venire nella stanza del montaggio. Bibi esclamò, sorpresa: "Ma Liv, sembri così strana!". E Liv disse: "No, se tu, Bibi.. sembri davvero strana!". Spontaneamente negarono la loro metà di quel viso..".

Dopo questa sequenza vediamo Elisabeth che succhia il sangue di Alma, e Alma che prende a schiaffi Elisabeth. Facendosi del male, l’una contro l’altra, è come se facessero del male a sè stesse per le scelte che hanno fatto.

In seguito (in una scena forse onirica) Alma riesce a far dire spontaneamente a Elisabeth una parola: “Nulla”. Una parola che sembra sottolineare, ancora una volta, l’inutilità del parlare.

Dopo che Alma parte dall’isola e Elisabeth (morta?) viene ripresa da una troupe (ancora la finzione filmica), Bergman ci mostra ancora il bambino dell’inizio che accarezza quei due volti sovrapposti sullo schermo.

Ora, però, sappiamo (forse) cosa rappresenta: il figlio (morto, mai nato, rifiutato) che mostra affetto per quelle madri che non l’hanno mai voluto.

La pellicola esce dal proiettore, le luci si spengono…la finzione è finita. “Persona”, uno dei più grandi film della seconda parte del secolo, è finito.

Ora potreste parlare, ma rimanete ancora per qualche momento in silenzio. Riflettete su quello che avete visto.

Senza sussurri.

Senza grida.

Rimanete in silenzio.

 

Chimy

Voto Chimy: 4 / 4

Voto Para: 4 / 4

Blow-up: nella Swinging London anni '60, Antonioni gira il suo capolavoro metafisico

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Un giovane fotografo di moda scopre accidentalmente un omicidio mentre sta fotografando una coppia in un parco londinese; ma forse è tutto frutto della sua immaginazione.  Oppure no?

Così si potrebbe riassumere “Blow-up”, capolavoro sull’essere e il non essere, girato da Michelangelo Antonioni nel 1966.

Dopo la “trilogia sulla donna” (“L’avventura”, “La notte” e “L’eclisse”) e dopo l’incontro tra il regista e il colore in “Deserto rosso”, Antonioni firma un contratto con la Mgm per girare tre film in lingua inglese: il primo sarà proprio “Blow-up”, gli altri due saranno “Zabriskie Point”nel 1970 e “Professione reporter” nel 1976.

“Blow-up”, che ha fatto vincere al regista una Palma d’oro al Festival di Cannes e un Nastro d’argento come miglior film straniero, stupisce ancora oggi, a 40 anni dalla sua uscita, per le sue tematiche e per i suoi risvolti metafisici.

Il primo elemento da evidenziare è la “Swinging London” anni ’60, meravigliosamente mostrata da Antonioni, che incornicia il film dall’inizio alla fine.

La musica degli Yardbirds, il mondo della moda, i vestiti e le pettinature tipiche di quegli anni ci proiettano nell’universo della capitale inglese di quel periodo.

Antonioni ci mostra tutti gli aspetti più caratterizzanti di quello spazio e di quel tempo: le prime manifestazioni per la pace, i festini a base di droga, le bellissime donne che vanno dalla modella Veruschka alla futura diva Jane Birkin.

Questo mondo viene attraversato e ritratto dal fotografo Thomas, interpretato da un ottimo David Hemmings (dieci anni prima di “Profondo rosso”), assoluto protagonista del film.

Ed è proprio la fotografia il secondo elemento forte che salta subito all’occhio in “Blow-up”.

Thomas prima, in un momento di enorme foga, ritrae con la sua macchina Veruschka arrivando persino a mimare un rapporto sessuale in una delle più celebri sequenze del film; poi, nel silenzio del parco, ritrae una coppia che gioca in un prato, prima di scoprire che quella pace potrebbe nascondere un segreto inconfessabile.

“Blow-up” è, però, anche un film di Antonioni. E lo è pienamente.

I silenzi e le passeggiate solitarie del protagonista ci rimandano all’isola de “L’avventura” e alla solitudine di “Deserto rosso”. Oltre a questo è ben presente il tema dell’alienazione dell’uomo verso una società che non riesce a capirlo e che non capisce; Thomas si sente solo e ogni relazione umana sembra impossibile.

David Hemmings è molto più simile alla Monica Vitti de “L’eclisse” di quanto può sembrare a prima vista: al concerto lotta per un pezzo di chitarra che, una volta guadagnato, viene gettato via; mentre parla con Vanessa Redgrave mostra la sua difficoltà nei rapporti con la compagna Sarah Miles in un celebre monologo: “Io e lei siamo sposati…anzi no, abbiamo solo bambini. No, non è vero, non abbiamo neanche dei bambini… però con lei si sta bene…anzi no, si sta male”.

Infine, fondamentale è il tema della metafisica e del rapporto tra realtà e finzione, vero punto cardine del film.

Man mano che, per meglio capire, ingrandisce le fotografie del parco (blow-up, in questo caso, vuol dire proprio ingrandire le fotografie), meno riesce a soddisfare la propria curiosità. Più guarda da vicino e meno riesce a “vedere” ciò che ha davanti.

Antonioni sembra voler riflettere sull’alienazione che può nascere dalla fotografia, e, quindi, anche dal cinema, suo medium discendente.

Nella sequenza (registicamente) paradisiaca, in cui Thomas è solo in casa e sta contemplando le immagini, noi stessi (come lui) cerchiamo così ossessivamente qualcosa da riuscire addirittura a vederlo, anche se in realtà non c’è nulla.

Quella pistola e quel cadavere che il protagonista riesce a/si immagina di vedere non sono altro che una proiezione della nostra stessa volontà inconscia che cerca di soddisfare la  sempre più impellente curiosità di trovare qualcosa di strano in quelle immagini che, in realtà, non hanno nulla da nascondere.

Questa riflessione diventa ancora più profonda in uno dei più grandi finali della storia del cinema: la fantasia e l’immaginazione sono più forti della verità e riescono a superarla anche quando sembrano ormai sconfitti.

Antonioni, forse, vuole suggerirci che la sfida realismo-finzione finisce a vantaggio della prima solo nella vita di tutti i giorni, mentre nel cinema è la finzione a vincere e così rimarrà per sempre.

Ma, in fondo, potrebbe anche essere il contrario.  Potrebbe essere la vita stessa un sogno e viverla sarebbe come giocare una partita a tennis senza racchette e senza palle.

Chimy

Voto Chimy: 4 / 4

Il posto delle fragole: il capolavoro di Ingmar Bergman con un immenso Victor Sjostrom

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Un uomo anziano sta scrivendo alla sua scrivania. Si presenta dicendo che è un medico di 78 anni, che ha dedicato completamente la sua vita al lavoro mettendo, così, in secondo piano le relazioni umane. A causa di questo ora vive isolato e in solitudine.

Il giorno successivo si celebrerà il suo giubileo professionale.

Così inizia “Il posto delle fragole”, il capolavoro assoluto di Ingmar Bergman, che ha ricevuto numerosi premi in tutto il mondo, tra cui un Orso d’oro al Festival di Berlino del 1957.

Il film è incentrato intorno alla figura del protagonista Isaak Borg, interpretato dal grande attore e regista svedese Victor Sjostrom in una delle più grandi prove attoriali della storia del cinema. Bergman dichiarò: “Sjostrom si era preso il mio testo, l’aveva fatto suo… si era impadronito della mia anima nella figura di mio padre e se n’era appropriato…”.

Dopo aver fatto un brutto sogno, il professor Borg decide di non prendere l’aereo e di andare, invece, in macchina al suo giubileo professionale, tornando così a visitare i luoghi del suo passato presenti sul tragitto.

Ed è proprio il viaggio il tema principale di quest’opera meravigliosa.

Un viaggio del ricordo: il ritorno al “posto delle fragole”, alla casa d’infanzia, a un passato felice così diverso da quell’isolata vecchiaia.

Un viaggio come riscoperta delle relazioni umane: Borg si fa accompagnare dalla nuora (Ingrid Thulin) con la quale instaura un rapporto sempre più intimo e sincero. Nel corso del tragitto incontrano tre autostoppisti: due ragazzi e una ragazza, Sara (Bibi Andersson), che gli ricorda moltissimo un suo amore di gioventù. I tre giovani sono vivaci e pieni di vita, così diversi dal protagonista che si sente “morto pur essendo vivo”.

La purezza e l’allegria dei nuovi compagni di viaggio sembra rimandare ai saltimbanchi del “Settimo sigillo”, gli unici che sopravviveranno alla ballata macabra della morte.

Un viaggio, anche, del rimorso: il rammarico di aver perso la ragazza di cui era innamorato, sua cugina Sara, che gli ha preferito il fratello perchè maggiormente pieno di vita; il rimpianto di aver lasciato luoghi e persone che amava, in cambio di una brillante carriera e di una moglie che lo tradiva e che lo considerava un uomo senza cuore.

Un viaggio, infine, come riscoperta di sè stesso, di ciò che davvero conta nella vita, delle passioni, delle sensazioni che generano sentimenti ed emozioni nell’animo umano; valori ben più importanti del successo, dei libri e del guadagno.

Pur mescolando diversi autori e teorici quali Freud, Strindberg, Ibsen e (più di tutti) Proust (la memoria degli attimi felici del passato), Bergman realizza con “Il posto delle fragole” un’opera che rientra pienamente nella sua filmografia per stile e contenuto.

Un film personalissimo (come molti dell’immenso regista svedese) che include l’ossessione religiosa, tema molto sviluppato negli anni successivi della sua carriera (es. “Sussurri e grida”); il ricordo di un’infanzia felice e gioiosa dove il piccolo Ingmar aveva già sviluppato una grande passione per il teatro e per l’immagine (es. “Fanny Alexander”); la presenza di molti attori che avevano lavorato spesso con lui: Ingrid Thulin, Bibi Andersson, Gunnar Bjornstrand e, in una piccola parte, Max von Sydow.

La sequenza che nessuno può dimenticare è quella dell’incubo, una delle vette oniriche della storia del cinema: Sjostrom cammina in strade deserte, vede un orologio senza lancette che rappresenta il suo tempo che sta per finire; incontra un uomo privo di volto umano che cade a terra e diventa sangue; infine vede arrivare un carro funebre, la bara si apre e al suo interno c’è lui stesso ancora vivo. La morte, altro elemento fondamentale nel cinema di Bergman, lancia i suoi presagi, facendo così capire al protagonista che il suo tempo sta per finire e facendolo così riflettere sulla vita che ha vissuto.

Quando Borg capirà che la sua vita “di successo” l’ha reso solo infelice e che nè i premi vinti, nè gli onori, nè i riconoscimenti possono sconfiggere la solitudine, cercherà di salvare almeno il figlio (Gunnar Bjornstrand), anch’egli medico, che sembrava portato a diventare tale e quale a lui.

Il finale è profondamente ottimistico: il protagonista riesce ad assopirsi, finalmente sereno, ricordando i luoghi del suo felice passato.

Allo stesso modo, mi piace pensare che Ingmar Bergman si sia addormentato sognando il suo "posto delle fragole".

Chimy

Voto Chimy: 4 / 4