"Away From Her": quando l'amore si nasconde tra il gelo.

In una delle prime sequenze del film Fiona (una fenomenale Julie Christie), passeggiando con il proprio marito Gordon (un grandissimo Gordon Pinsent) nelle innevate pianure canadesi, si ferma colpita dalla presenza di un fiore giallo. Fiona, toccandolo delicatamente, ci spiega che nei petali ricurvi dei fiori si può sempre sentire un lieve calore. Fiona è, per Gordon, un fiore in cui cercare il calore nascosto. Nella fredda desolazione della memoria della moglie, colpita dall’alzheimer, l’amore è come quel fiore tra la neve: solitario, coraggioso, ma in fondo culla di un calore costante, seppur lieve.
Con difficoltà, ma con speranza, Gordon accetta di portare Fiona in una casa di cura specializzata. Qui la donna, divorata dall’alzheimer, comincia a dimenticare l’amore per il marito, amore che esternerà su un malato grave con cui divide la permanenza nella casa di cura. Gordon non smetterà mai di amare Fiona, anzi, proprio in questo “nuovo” amore non corrisposto, capirà quanto il calore nascosto in un fiore possa essere potente per il proprio cuore.
Away from Her” riesce a stupire sia per i contenuti, la riflessione sulla vecchiaia, sulla malattia e sull’amore, e sia per la regia di Sarah Polley. La prima parte del film ospita sequenze splendide (le visite dei parenti nella casa di cura; le diverse sciate di fondo di Fiona; un magnifico dolly che dal volto di Fiona sdraiata sulla neve si alza verso il cielo), e l’unico neo del film si trova nei venti minuti che precedono il bellissimo finale, in quei minuti il calo di ritmo e di regia è, purtroppo, davvero vistoso.
In ogni caso in questo suo esordio Sarah Polley ci stupisce per la sua capacità di tenere sempre la giusta distanza. Ciò che conta, in questi casi, è lasciare spazio alle persone, lo spazio per muoversi, lo spazio per pensare, e lo spazio per soffrire, anche se questo implica negarlo a sé stessi. Come il protagonista si avvicina alla moglie solo per abbracciarla, così la macchina da presa si avvicina ai volti solo per carpirne l’anima.

Para
Voto Para: 3/4

Voto Chimy: 3/4


Torino Film Festival: primo resoconto.

Buena Vista Social Club
Para: Film bellissimo, come la musica che lo percorre. O bellissimo come le persone che lo percorrono.


The Savagees
Chimy: Il film d’apertura e forse il migliore, per ora, del festival (eh eh…e Para e Honeyboy rosicano..^^).
Una sorella (Laura Linney) e un fratello (P.S.Hoffman) devono iniziare ad occuparsi, nonostante i rapporti poco idilliaci, del padre afflitto da demenza.
Quella di Tamara Jenkins è una profonda riflessione sulla condizione delle persone di mezza età nella società contemporanea.
I veri malati, infatti, sembrano essere i due figli (più del padre) che hanno perso fiducia nella vita e  speranza per un futuro migliore.
Inizialmente sono restii ad occuparsi del padre (“che non è mai stato un buon padre” sottolineano più di una volta), ma in seguito il cercare di aiutare il genitore malato diventa la loro vera ragione di vita.
P.S. Hoffman, guarda caso, è strepitoso, ma non è lui il migliore del film. Laura Linney ci regala, in assoluto, la migliore interpretazione della sua carriera in un ruolo davvero molto complesso.
Tanto per farvi venire ancor più voglia di vedere questo film, vi anticipo che c’è una splendida sequenza iniziale… con uno stile, un fascino e un’ inquietudine tipicamente lynchiana…(vi ricordate l’inizio di “Velluto blu”?).
Distribuzione non ci tradire….

Charlie Bartlett
Chimy: Banalissima teen-comedy che parla di un ragazzo ricco da poco iscritto in una scuola pubblica dove riesce a trovare, con mezzi particolari, la popolarità che ha sempre cercato.
Film inutile e profondamente commerciale che non riesce a sviluppare alcuna riflessione e fatica anche a divertire.
A tratti è imbarazzante e imbarazzato è anche Robert Downey Junior che sembra chiedersi come sia finito a recitare in una tale scemenza.
Scandalosamente in un festival “culturale” come quello torinese.


Para
: Pensate a tutti i teen movie fatti fin’ora e metteteli insieme. Mescolate, aggiungete degli psicofarmaci e la ricetta è servita: sbobba per adolescenti scemi e per adulti che credono nella vita scema degli adolescenti americani. Proiettato sabato pomeriggio alle 16, in concorrenza con il pomeriggio di Italia 1.


Irina Palm
Chimy: Un film sorprendente. Crudo, forte e molto profondo.
Apre ad ampie riflessioni su cosa si può arrivare a fare per i propri cari.
Coraggioso e intelligente: assieme a qualche lacrima riesce a strappare anche un sorriso.
Mi fermo qui a parlarne perchè uscirà in sala nelle prossime settimane e ne parlerò con una normale recensione.


Home Song Stories
Chimy: Una madre cinese, con due figli, si trasferisce in Australia dove l’aspetta un ufficiale dell’esercito con il quale cerca di costruire una vita migliore. L’incontro con un giovane connazionale del quale s’innamora complicherà notevolmente le cose.
Fiera della banalità per quest’opera che alterna momenti riusciti a situazioni che sfiorano l’imbarazzante.
Cerca di commuovere ma lascia semplicemente lo spettatore lontano da una vicenda della quale si possono ipotizzare ben presto i risvolti.
Strepitosa Joan Chen ma non basta a far arrivare il film alla sufficienza.


Para: Dicesi shinpa quel genere cinematografico coreano che va oltre il melodramma. Questo film è uno shinpa girato da un cinese australiano in Australia e tratta della triste vita di una triste famiglia di cinesi in Australia. C’è bisogno di aggiungere altro?


My Blueberry Nights
Chimy: L’ultima opera di Wong Kar Wai è, per il momento, la grande delusione del Festival.
“My Bluebbery Nights” inizia molto bene con splendide sequenze all’interno del bar in cui lavora Jeremy (Jude Law), personaggio con il quale Elizabeth (Norah Jones) si confida dopo essere stata scaricata dal fidanzato.
In seguito Elizabeth parte per un viaggio verso Ovest alla ricerca di sè stessa.
Insieme alla protagonista, si perde per strada anche il film che, a causa di una sceneggiatura piena di lacune, non riesce più a ritrovare la bellezza estetica di quei primi minuti.
Wong sembra voler vivere di rendita dal successo di “In the Mood for Love” riproponendo a dismisura, senza ragione e senza coscienza, continui ralenty privi di una qualsiasi funzione narrativa e discorsiva.
L’ultracitato bacio-rovesciato è profondamente deludente, così come l’interpretazione di Norah Jones che si aggira spaesata in un America banale e piena di luoghi comuni.
Un film davvero poco riuscito che fa rimpiangere le atmosfere hongkonghesi e gli attori protagonisti dei precedenti film del regista.
Mi sembra più che corretto dire che in questo caso Wong l’ha fatta fuori dal vaso.


Para: “Le mie notti mirtillose” (libera traduzione di Honeyboy, che proponiamo come titolatore dell’anno) dona ai fan di Wong Kar Wai quello che vogliono: i ralenty. Il film è (quasi) tutto al rallentatore, è la storia rallentata degli stereotipi del cinema americano: diner cafè, road movies, deserto, Las Vegas, casinò, poliziotti alcolisti, mogli sclerotiche e un paio di storie d’amore.
Il problema è che il film è bello.
Mi spiace, ma anche di fronte ad una sceneggiatura obiettivamente inconsistente non posso negarvi che mi sia piaciuto.
Con lentezza rallentata lo promuovo come un felice passatempo per chi vuole rallentare insieme a Wong.


Away From Her

Chimy: Insieme a “The Savages” sicuramente il miglior film del concorso.
L’esordio dietro la macchina da presa della bravissima attrice Sarah Polley ha del sorprendente, soprattutto in una bellissima prima parte.
Il film parla di Fiona, donna anziana in preda all’orrore dell’alzheimer, e del marito Gordon che cerca di convincersi a mettere la moglie in una casa di cura.
“Away from her” riesce ad essere davvero notevole (cosa rara) sia per i contenuti (una profonda riflessione sulla vecchiaia e, perchè no, sulla forza dell’amore), che per la forma (diverse sequenze davvero splendide).
Fortunatamente uscirà a breve nelle sale italiane e quindi potremo parlarne più approfonditamente.
Certo che il festival inizia a tingersi davvero di femminile visto che i due film migliori del concorso sono proprio diretti da due donne.
Una menzione speciale per i due straordinari attori: grandioso Gordon Pinsent, su Julie Christie dico soltanto che ne riparleremo nel periodo degli Oscar….


Para: Escludendo il film di Wenders questo è senz’altro il miglior film visto durante il festival. Una prima parte bellissima, con ottime sequenze e bellissime inquadrature, e l’interpretazione dei due attori principali è da premiare in qualsiasi modo. Peccato per i venti minuti che precedono il bellissimo finale. In ogni caso un film che stupisce per la capacità della regista di tenere sempre la giusta distanza. Ciò che conta, in questi casi, è lasciare spazio alle persone, lo spazio di muoversi, anche se questo implica di negarlo a sé stessi. Come il protagonista si avvicina alla moglie solo per abbracciarla, così la macchina da presa si avvicina ai volti solo per carpirne l’anima.
Nei petali ricurvi dei fiori si può sempre sentire un lieve calore.


Vogelfrei
Chimy: Wow che film…già di culto…. ci ha davvero esaltato alla follia quest’opera (mmm???) lettone che segue le 4 fasi della vita di un uomo.
Personalmente vorrei ringraziare sinceramente i registi (4…) del film che ci hanno fatto davvero ridere e divertire come raramente accade (purtroppo, o per fortuna,  è però un film drammatico e privo di ironia…).
Dato che voglio lasciare spazio, con curiosità, alle parole di Para e Honeyboy, mi limito ad assegnare 4 aggettivi sulle 4 parti del film…
Prima parte (infanzia): stupidina
Seconda parte (adolescenza): irritante
Terza parte (l’età adulta): imbarazzante
Quarta parte (la vecchiaia): insopportabile
Che sia il capolavoro dell’anno???
p.s. attendiamo con ansia l’uscita in sala… ne vogliamo ancora….


Para: Dio benedica il cinema della Lettonia. In un solo colpo abbiamo potuto ammirare la bravura di ben quattro registi lettoni. Il consiglio è: tenere d’occhio le produzioni lettoni, causano assuefazione.
La prima parte si salva nella sua mediocrità, la seconda parte non si salva a causa della pessima recitazione dell’attore protagonista, sulla terza stendiamo un velo pietoso, nella quarta c’è un tizio che va in giro con un gufo nello zaino, una croce sulle spalle, vengono citati, plagiati e offesi Leone e Bergman, c’è una bambina nella posizione del loto, un falco troppo docile e poi basta, altrimenti eravamo ancora sulle poltrone chiedendo ad alta voce il bis.
Che bel film.
Mamma mia che bel film.


The Tracey Fragments
Chimy: La vita turbolenta della giovane adolescente-ribelle Tracey (quanto mi piace Ellen Page..) viene ritratta dal regista Bruce McDonald con uno split screen davvero estremo.
Questa affascinante modalità narrativa ha ragione d’esistere se la si usa in maniera intelligente: in particolare mostrando la stessa sequenza (nello stesso spazio di tempo) da diversi punti di vista.
Purtroppo questo succede davvero raramente…
McDonald monta il film dividendolo continuamente con ripetizioni gestuali, sovrapposizioni vocali, salti temporali…
A volte può essere funzionale (la natura incerta e segmentata della mente della protagonista), ma la grande maggior parte delle volte porta solo a “simil-videoclip” imbarazzanti (un cavallo che si sovrappone, alternandosi, all’immagine di Tracey che corre per fare un divertente esempio).


Para: Amando lo split screen attendevo con ansia questo film, e purtroppo sono stato deluso. Il regista ha infatti abusato di tale tecnica, che dimostra le sue potenzialità solo in alcune scene, dove possiamo osservare da diversi punti di vista la stessa azione. Avrebbe poi funzionato bene anche come sistema per apporre simbolismi, cosa che il regista prova a fare ma con risultati imbarazzanti. Insopportabili le parti del film, che non sono poche, in cui assistiamo ad un vero e proprio video clip con montaggio a tempo e con canzone che ci tocca ascoltare dall’inizio alla fine. Insomma, un film che poteva essere molto di più, e che ha ragione di esistere solo per quello che poteva essere, nella speranza che qualcuno tenti un’operazione simile ma con un briciolo di intelligenza in più.