Mostra di Venezia 2009-Primo resoconto

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Purtroppo, causa impegni, la nostra Mostra è finita al settimo giorno, e non al decimo, giorno della premiazione. Mancheranno per questo i film presentati nel corso del finale del festival… ma ecco il primo di due brevi resoconti (con le classiche mini-recensioni) dei film più importanti visti alla Mostra di Venezia 2009.

 

 

Baarìa di Giuseppe Tornatore

 

Chimy: Cerca di volare alto Tornatore, come fa uno dei bambini protagonisti all’inizio del film, ma vola troppo in alto e una volta in discesa la caduta si fa molto dolorosa. Tornatore vorrebbe raccontare la storia novecentesca della Sicilia con Baarìa, ma non fa altro che raccontare il privato di una famiglia mentre gli eventi (o ancor meglio i cambiamenti) storici rimangono solo in superficie: cornice abbozzata e maldestra che voleva essere invece protagonista-riflessione dell’opera. Oltre a questo i problemi risiedono in una forma che, seppur apprezzabile per lunga parte dell’opera, crolla in eccessi retorici e zuccherosi davvero insopportabili, che trovano il proprio apice in un finale davvero da buttare. Prima di due grandi delusioni del concorso veneziano.

 

 

Rec 2 di Jaume Balaguerò e Paco Plaza

 

Chimy: Poche parole per un film pessimo, girato come il precedente e che risulta ormai anacronistico. Alle solite videocamere a mano (che tanto senso avevano nel primo capitolo ma non più in questo caso) si aggiunge una sceneggiatura completamente sbandata e frettolosa dove a farla da padrone sono assurde spiegazioni pseudo-religiose che fanno il “verso” a L’esorcista. Molto più noioso che spaventoso.

 

 

Life During Wartime di Todd Solondz

 

Chimy: Cinque anni dopo il geniale Palindromi, Todd Solondz torna a Venezia e fa nuovamente il botto. Life During Wartime è un film davvero bello, forse bellissimo, probabilmente imperdibile (giudizi definitivi ad una futura seconda visione): un’opera che ragiona magnificamente sull’oggi, sulla contemporaneità, sulla crisi d’identità dell’umanità contemporanea che sta vivendo in tempo di guerra, e forse nemmeno se n’è accorta. Un sequel di Happiness, che trova forza e senso ulteriore proprio in relazione alla pellicola del 1998: bisogna riflettere su come sono cambiati i personaggi, i volti sono diversi, opposti, ma loro sono sempre gli stessi; con le stesse paure e con lo stesso bisogno di essere perdonati. Un cast straordinario (con attori tutti diversi da Happiness) dove gli interpreti riprendono direttamente i gesti e le pose degli attori che li hanno preceduti negli stessi ruoli. Chicca assoluta e non casuale: un poster di Io non sono qui appeso nella camera di uno dei protagonisti. Chi ha visto Palindromi capirà… Per chi scrive, a conti fatti e se mi trovassi a dover decidere con una pistola alla tempia, il film migliore visto a Venezia 2009.

 

Para: Un film volutamente di plastica e grottesco, un film spiazzante e necessario. Solondz non delude e porta sullo schermo un film che oltre ad essere un film per chi ha visto Happiness (assolutamente indispensabile averlo visto, in quanto vero e proprio seguito), è anche un film per chiunque abbia il coraggio di guardare dentro di sé. Con Life During Wartime (La vita in tempo di guerra, perché la società contemporanea è come un campo di battaglia) ognuno di noi deve arrivare ad ammettere, definitivamente, quanto Solondz sia un regista dell’oggi, cantore della profonda essenza dell’uomo contemporaneo. Arriva ad essere filosofico e didattico nell’intenso discorso sul forgive/forgiveness. Uno dei migliori film del festival.

 

 

The Road di John Hillcoat

 

Chimy: Oltre e più di Baarìa la grande delusione della Mostra. Il film è tratto dal più grande romanzo del nuovo millennio e c’era molto fiducia che a trasportarlo sul grande schermo fosse John Hillcoat, regista dell’ottimo La proposta. The Road è un film che gira molto a vuoto, sa di già visto e perde molte delle riflessioni possibili sul rapporto fra un padre e un figlio in un mondo ormai morto. Si arriva a banalizzare inconsciamente il concetto del “fuoco” del romanzo di Cormac McCarthy; e questo è un errore imperdonabile. Trasporre sul grande schermo La strada non era facile; ma se McCarthy descriveva quel mondo devastato con la sua scrittura straordinaria, Hillcoat non riesce mai a “scrivere” cinema con la macchina da presa e si limita unicamente a seguire il percorso dei due protagonisti. Purtroppo davvero inconsistente.

 

Para: The Road parte bene, con una prima parte realmente coinvolgente, angosciante e d’impatto, per poi perdersi nella ripetizione e nella mancanza di un obiettivo. Troppo vago e banalizzato il profondo messaggio di cui vorrebbe farsi portatore. Per Hillcoat una vera e propria occasione sprecata. Si intravedono gli intenti, ma non basta.

 

 

Il cattivo tenente-Ultima chiamata New Orleans di Werner Herzog

 

Chimy: Partiamo dicendo che il film originale di Ferrara non c’entra nulla, Herzog se ne distacca per fare un film in cui però c’è comunque poco del suo spirito autoriale e poco anche dello spirito dei suoi personaggi storici. Il cattivo tenente-Ultima chiamata New Orleans è un divertissement che Herzog si sarà certamente divertito a girare, che fa una specie di parodia del genere poliziesco nella seconda parte ma non nella prima che invece è molto seria (scelta di cambi di registri abbastanza discutibile). Il film è comunque guardabile anche se molto semplice e di poco conto. A conti fatti sembra un’operazione, per quanto particolare, abbastanza commerciale che avrà permesso a Herzog di realizzare un progetto ben più personale (sempre negli USA) che è il film sorpresa della Mostra, My Son, My Son, What Have Ye Done. Di questo si parlerà nel secondo resoconto.

 

Para: Herzog da Ferrara prende soltanto il cattivo tenente, nel vero senso della parola. Nessun riferimento al film culto di Ferrara, se non, appunto, le particolari propensioni verso sesso e droga del protagonista. Un film che dimostra la genialità del regista tedesco, che si diverte e ci diverte, prendendo tutti per i fondelli, da Cage fino a tutti gli spettatori. Non una vera e propria parodia ma piuttosto una critica divertente e divertita sul genere poliziesco, cinematografico e televisivo. Contiene chicche di rara efficacia e genialità, Cage è per una volta nella parte ed è forse la cosa migliore che Herzog potesse fare per fare cassa senza svendersi.

 

 

Tetsuo-The Bullet Man di Shinya Tsukamoto

 

Chimy: Facilmente attaccabile dalla critica dei quotidiani (non era da mettere in concorso) il nuovo Tetsuo è un film che ha invece diversi motivi d’interesse. Tsukamoto scende molto poco (la mutazione eccessivamente spiegata) a compromessi con le case di produzione americane e prosegue comunque a fare il suo cinema, con la sua regia (molto buona anche qui), il suo montaggio e il suo ritmo frenetico. La sceneggiatura è discreta, il film non rimarrà forse nella memoria dei fan del regista, ma dato che i produttori americani avevano comunque deciso di fare un remake di Tetsuo è molto meglio che l’abbia fatto Tsukamoto (e in questo modo) che qualsiasi altro regista.

 

Para: Tsukamoto realizza un film fatto per il suo pubblico, con richiami continui ai suoi due Tetsuo e reminescenze da altre sue pellicole. Scende ai giusti compromessi per accontentare i suoi fan ma per rendere appetibile il prodotto anche ai neofiti del suo cinema. Se potrebbe peccare dal punto di vista narrativo, a causa di spiegazioni e di un plot non troppo complesso ed originale, non pecca dal punto di vista registico: interessante la componente più horror e di tensione, e ottime, ovviamente,  le soluzioni di montaggio, frenetiche e in puro stile Tsukamoto.

"Nightmare Detective": Tsukamoto prova a fare il sociologo e lo psicologo e ci riesce bene.

ndetectiveUn film per amanti di Tsukamoto… uno Tsukamoto diverso dai suoi film precedenti…
Nightmare Detective” inizia con un incubo surreale; e con gli incubi prosegue, anche se sfiorano più il reale che il surreale.
Il film parla di una detective, Keiko Kirishima, che si imbatte in due misteriosi suicidi a cui non riesce a dare una spiegazione. Scopre che le due vittime prima di morire hanno entrambe composto sul cellulare il numero ‘0’; deciderà allora di chiamare quel numero e scoprire chi si cela dietro quella cifra. Alle indagini parteciperà anche un uomo, il cui soprannome è“Nightmare Detective”, in grado di entrare nei sogni (e negli incubi) dei suoi pazienti.
Tsukamoto si rifà, in “Nightmare Detective”, a procedimenti narrativi già ben collaudati (“Nightmare”…) e a tematiche già presenti nella sua filmografia (la morte, la malattia, il ruolo demiurgico…); allo stesso tempo però amplia questi modelli inserendo un forte messaggio sociale, legato all’argomento principale del film: i suicidi.
Il regista giapponese, come aveva anche detto alla Festa di Roma, ha realizzato quest’opera per raccontare un problema che in Giappone è sempre più diffuso: quello dei suicidi collettivi.
Su Internet, in Giappone, si trovano molti annunci di persone che vogliono suicidarsi e chiedono di accompagnarli in questo viaggio nell’aldilà. E’ esattamente ciò che avviene nel film:  ‘0’ contatta persone che pensano al suicidio promettendogli che moriranno insieme mentre si stanno parlando al cellulare.
Le persone che, nel film, vogliono suicidarsi prendono la morte con leggerezza, in maniera disincantata: una ragazzina che la vede come uno sballo; un uomo che, mentre sta per uccidersi, mangia dei panini… il demiurgico ‘0’ vuole allora “punirli” e fargli scoprire cos’è la morte in realtà.
‘0’ (interpretato magnificamente dal regista) è in coma e vuole fare di tutto per tornare a vivere, ha cercato di suicidarsi, accoltellandosi, ma ora sembra scoprire, all’interno del suo incubo dettato dal coma, l’importanza della vita. ‘0’ fa conoscere, a chi si sta suicidando, il vero orrore, l’angoscia, lo spettro della morte: un fantasma che sembra invisibile ma che, in realtà, è molto presente.
Uno Tsukamoto forse più “commerciale”, che si apre ad una più ampia fetta di pubblico, ma lo fa per veicolare a più persone il suo messaggio, per cercare di farle riflettere, di far loro capire quanto la vita sia importante e che non bisogna buttarla via (tematiche che aveva affrontato anche nel magnifico “Vital”, il suo film migliore).
Uno Tsukamoto che usa il surreale per giungere al reale, uno Tsukamoto incisivo e maturo…
Uno Tsukamoto simile e diverso dal solito allo stesso tempo…

Chimy
Voto Chimy: 3/4

Con questo film Tsukamoto continua la sua idea di cinema come evoluzione di un pensiero che seppur sembra sempre maggiormente allontanarsi da quello che gli ha dato fama (“Tetsuo” e il cyberpunk, la mutazione, la carnalità) è pur sempre ancorato al concetto di corpo.
Nel precedente Vital tale concetto è perfettamente evidente: la scoperta dell’anima attraverso la dissezione di un corpo. In questo Nightmare detective il concetto si sposta sulla mente. È soprattutto indagine su quello che può spingere la mente di un uomo a rifiutare il corpo, spingendolo al suicidio.
Il viaggio onirico riporta con facilità al discorso del sogno (in questo caso l’incubo) come materia di studio psicologico. Le vittime di zero solo durante il sonno concretizzano il desiderio di togliersi la vita. Il problema di fondo dorme nel subconscio, pronto ad essere svegliato. Nell’incubo la vittima crede di essere accoltellata da ‘0’, ma le ferite “oniriche” si riflettono in concreto in quanto è la persona stessa a provocarsele durante il sonno. E’ ‘0’ a “dare il coraggio” di fare ciò che in profondità desiderano, rovinando però loro questo momento catartico, in quanto da momento di gioia diventa momento di profonda paura.
Il tema psicologico è fortemente presente, seppur in maniera “spicciola”. E questo va decisamente a favore di una più immediata comprensione da parte dello spettatore. Noi tutti siamo infatti consapevoli che “Otto e Mezzo” di Fellini e “L’anno Scorso A Marienbad” di Resnais siano dei grandissimi film, ma la forte indagine psicoanalitica presente in essi li rende tutt’altro che immediatamente comprensibili.
In “Nightmare Detective”, oltre al discorso di desiderio subconscio di togliersi la vita, troviamo il tema dei ricordi d’infanzia cancellati dalla memoria ma che hanno fortemente segnato la personalità, e anche un piccolo accenno di ipnosi terapeutica. Il detective dell’incubo cerca di aiutare una vittima di ‘0’ mentre dorme, con una serie di domande e manipolazioni a cui il “paziente” risponde. Cerca infatti di manipolare la mente dell’uomo per aiutarlo a fuggire da ‘0’. Gesto inutile, che lo costringerà ad addentrarsi comunque nel suo incubo. Inutile un po’ come è inutile l’ipnosi in campo terapeutico.
L’importanza e il valore della vita che il regista aveva già trattato soprattutto in “Vital”, ritornano anche in “Nightmare Detective”. Il momento in cui la vittima di ‘0’ si arrende di fronte alla paura viene simboleggiato da Tsukamoto con l’immagine della persona che affonda nell’acqua. Durante uno di questi momenti, nel finale, uno dei personaggi vede scorrere davanti a sé la sua infanzia, gli episodi felici, e la bellezza della vita in tutte le sue forme. Ritrova così la gioia di vivere che aveva perso da tempo e che l’aveva fatta cadere in balia del desiderio di suicidio.
Concludendo mi rivolgo a chi sente la mancanza dello Tsukamoto di “Tetsuo”, visto che avrà piacere di sapere che in una scena di questo film c’è un corpo maciullato tra la carcassa metallica di un automobile. I tubi, il ferro e la carne non potranno mai davvero lasciare il cinema di Tsukamoto.

Para
Voto Para: 3/4